Bergamo, il prete senza paura: "In ospedale tra le bare"

Frate Aquilino Apassiti ha 84 anni ed è il cappellano del Giovanni XXIII: ogni giorno prego assieme ai parenti delle vittime

Frate Aquilino Apassiti

Frate Aquilino Apassiti

Bergamo, 3 aprile 2020 - Ha visto la guerra, sentito il fragore delle bombe che deflagravano vicino casa. Dopo avere fatto l’infermiere per diciotto anni, per venticinque è stato missionario in Amazzonia, a combattere malaria, lebbra, miseria, superstizione. Nel 2013 ha sconfitto il tumore che lo aveva assalito al pancreas, secondo i medici un’aspettativa di vita di sei mesi, massimo un anno. Frate Aquilino Apassiti, bergamasco di Dalmine, ha 84 anni e veste il saio dei cappuccini da quando ne aveva dodici. Con quattro confratelli è uno dei cappellani dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo.

Quando ha avuto la prima percezione di quello che stava accadendo? "In ospedale sono un battitore libero. Fino alla metà di febbraio andavo tutti i giorni a trovare gli ammalati in day hospital, in nefrologia, tre volte al giorno in dialisi, alla medicina d’urgenza, senza mai dimenticarmi di passare alla mortuaria. Un giorno ho incontrato l’infermiera di un reparto: ‘Padre, mi scusi. Ma alla sua età è opportuno che non passi’ ". E da allora? "Vedevo i reparti che venivano modificati, protetti. Ho capito che si trattava di una gravissima emergenza, che la gente moriva e continuava a morire, entrando nell’obitorio. Di solito le stanzette occupate erano dieci o dodici. Arrivavano bare, bare, bare. Che succede, mi chiedevo? Un giorno ho visto una bara con un numero. Era quella di un uomo che la moglie aveva accompagnato in ospedale tre giorni prima. La signora mi aveva chiesto una benedizione. Ho preso il mio smartphone e l’ho chiamata: ‘Signora, coraggio. Sono qui davanti alla bara di suo marito. Ho la mascherina. Preghiamo insieme’. Anche gli infermieri si sono fermati a pregare". Come sono stati i giorni a seguire? "Bare e ancora bare. Bare sopra bare. Le pompe funebri facevano tutto quello che potevano. Ero abituato a vedere le bare con i nomi, qualche fiore vicino. Invece erano bare contrassegnate da un numero e sopra gli effetti della persona deceduta". I momenti più dolorosi? "I tanti momenti del distacco dei familiari dal loro caro. Lo avevano accompagnato in ospedale, lo lasciavano, non sapevano se l’avrebbero rivisto. Per tanti è stato così. Tanti sono morti in solitudine. Ma avevano Dio vicino. I parenti della signora Silvana mi hanno dato il suo cellulare perché la potessi chiamare. La signora Francesca ha avuto il trapianto renale. Mi ha chiamato: ‘Padre, mi aiuti’. ‘Sono qui, preghiamo’ ". Non teme il contagio? "A 84 anni cosa posso temere? Avrei dovuto essere morto sette anni fa. Ho vissuto una vita lunga e bella. Ho realizzato tanti sogni, anche quelli che avevo da piccolo, come quando sono partito missionario per il Brasile. Al Signore dico che mi lasci qui se pensa che possa essere ancora utile". La sua preghiera? "Signore, manda una benedizione e aiuta la scienza perché scopra qualcosa".