Coronavirus a Bergamo, "terapia intensiva negata a mio padre ultrasettantenne"

Il calvario di Giulia: attesa lacerante, da 14 giorni non vedo mio padre. I medici dicono che è stazionario

Coronavirus, due operatori sanitari

Coronavirus, due operatori sanitari

Bergamo, 1 aprile 2020 - Se fossimo in guerra li definiremmo "danni collaterali". Nonno Marco, 75 anni,  bergamasco, è morto di polmonite  batterica a fine marzo. Il coronavirus non c'entra, almeno non direttamente. Nonno Marco non ce l'ha fatta perché aveva urgente bisogno della terapia intensiva, ma tutti i posti erano occupati da pazienti Covid 19. Alla fine dell'emergenza sanitaria, nella conta dei morti di coronavirus e per coronavirus, dei pazienti "sommersi",  contagiati e asintomatici, si dovrà tenere conto anche dei "danni collaterali", quelli che, in assenza della situazione  di emergenza, avrebbero trovato posto in terapia intensiva e si sarebbero goduti, ancora per qualche anno, l'affetto di figli e nipoti.

Il triste esercizio della conta quotidiana delle vittime non tiene conto dell'ansia di chi ha un familiare ricoverato e rimane sospeso in un limbo, pregando che quei numeri giganti  non lo tocchino, non così da vicino. Da due settimane il papà di Giulia, medico bergamasco di 79 anni, è ricoverato per coronavirus alla clinica Palazzolo di Bergamo.

"All'ospedale Papa Giovanni non c'era più posto", racconta Giulia, che preferisce non rivelare il cognome per tutelare il figlio, all'oscuro sulla salute del nonno. "Papà avrebbe bisogno della terapia intensiva - prosegue  Giulia - ma i medici ci hanno detto chiaramente che i posti sono esauriti, così come i farmaci usati per la sperimentazione. E comunque, data l'emergenza, non c'è spazio per gli ultrasettantenni.  Noi familiari non lo vediamo da 14 giorni, riusciamo ad avere qualche notizia grazie alla disponibilità delle infermiere che, dopo turni di lavoro massacranti, telefonano alle famiglie dei ricoverati per aggiornarle sul quadro clinico. Due volte hanno fatto una videochiamata per consentirci di vederlo. Due volte in 14 giorni. La cosa più atroce di questa emergenza è doversi allontanare dai propri cari con il rischio, magari, di non rivederli più se qualcosa dovesse andare storto. Io non sono ottimista, dentro di me sono preparata al peggio, mia madre no. Lei prega tutto il giorno e spera che mio padre si riprenda e torni presto a casa". 

Giulia non si dà pace, le ore delle sue giornate scorrono tutte uguali, scandite dai rintocchi a morto delle campane e dalle sirene delle ambulanze. "Ogni  volta che squilla il telefono si riaffaccia la paura - racconta Giulia -.  Quella diagnosi 'stazionario' è diventata ormai familiare, quasi di conforto. Ma per quanto tempo ancora? Sempre più gente sta morendo intorno a me. Non conosco quasi più famiglie dove non si conti un parente o un conoscente deceduto per coronavirus. A Bergamo abbiamo smesso da tempo di appendere arcobaleni ai balconi e non abbiamo mai cantato alle finestre, forse perché stiamo pagando il prezzo più alto in questa emergenza. Non ci accomuna l'Inno di Mameli ma il dolore per i nostri cari, un filo invisibile che sta annodando quasi tutte le famiglie bergamasche".