Caso Macchi, test del Dna per verificare la pista Piccolomo

L'imbianchino continua a professare la sua innocenza. Sugli esami scientifici l'incognita delle condizioni dei reperti di E.C.

Giuseppe Piccolomo (Newpress)

Giuseppe Piccolomo (Newpress)

Varese, 31 luglio 2014 - La scienza e, in particolare, il test del Dna torneranno a giocare un ruolo nel caso Macchi 26 anni dopo le analisi sui campioni biologici di quattro uomini sospettati per l’assassinio della giovane studentessa? La domanda è legittima, anche alla luce della richiesta di Giuseppe Piccolomo, indagato con l’accusa di omicidio volontario, di essere sottoposto all’esame per allontanare da lui qualsiasi ombra. L’artigiano diventato noto come il «killer delle mani mozzate», condannato in Cassazione con l’accusa di aver assassinato la tipografa in pensione Carla Molinari e di averle tagliato gli arti superiori, la ho detto davanti alle telecamere della trasmissione Mediaset «Quarto grado», in un’intervista registrata nel carcere di Pavia, dove sta scontando l’ergastolo. «Sono innocente - ha scandito l’ex ristoratore ai microfoni - Non ho nulla a che vedere con l’omicidio di Lidia Macchi. E se non ci credete, fatemi il test del Dna. Così sarò scagionato».  Eppure, nonostante i passi avanti compiuti dalla scienza applicata ai fatti di cronaca in questi anni, potrebbe risultare complicato effettuare il test del Dna per accertare una compatibilità fra il profilo biologico di Piccolomo e quello dell’uomo che infierì con 29 coltellate sul corpo della giovane scout varesina, lasciato poi senza sepoltura nei boschi del Sass Pinì, vicino a Cittiglio. Il motivo? Simile a quello che nel 1988 impedì di ricorrere con successo alla scienza, così come sollecitato dal compianto Enzo Tortora nella trasmissione Rai «Giallo». Allora i reperti isolati sul cadavere di Lidia risultarono inservibili. Troppo scarsi. Oggi, se l’ostacolo della «povertà» del materiale potrebbe essere aggirato grazie ai progressi compiuti nel campo della genetica, lo scoglio contro cui potrebbero infrangersi le speranze di una buona riuscita dell’investigazione scientifica è rappresentato dalle condizioni delle tracce individuate sulla scena del delitto.  A quanto sembra, infatti, il materiale repertato e custodito in procura sarebbe compromesso. Un’ipotesi che troverebbe riscontro nella mancata effettuazione degli esami nella fase d’indagine, condotta dal sostituto procuratore generale milanese Carmen Manfredda, dopo l’avocazione dell’inchiesta. Si vedrà. Intanto si attendono le mosse difensive dell’ex imbianchino che ha già annunciato, attraverso il nuovo avvocato Omar Pagnozzi, di voler prendere tempo per studiare la sua strategia, avvalendosi del mese e mezzo di sospensione dei termini giudiziari prima di presentare eventuali controdeduzioni al castello accusatorio così come emerso dall’avviso di chiusura indagini. Bisognerà aspettare anche sull’eventuale decisione di chiedere un interrogatorio, dopo che nel primo Piccolomo si avvalse della facoltà di non rispondere.

Per ora l’avvocato Pagnozzi non fa che ripetere che il suo assistito «professa innocenza» rispetto all’accusa di aver ucciso Lidia Macchi. Tra gli elementi indiziari raccolti dalla Procura generale a suo carico ci sono le dichiarazioni delle due figlie di Piccolomo che accusano il padre, un identikit e un cartone da imballaggio che venne trovato sul cadavere della giovane.