Caso Macchi: stessa furia per due massacri, un identikit e un cartone portano verso il killer

Varese, raccolti nuovi importanti indizi contro Giuseppe Piccolomo, già all'ergastolo per il cosiddetto delitto delle mani mozzate di Mario Consani

Lidia Macchi (Newpress)

Lidia Macchi (Newpress)

Varese, 29 luglio 2014 - L'ultimo indizio è solo un pezzo di cartone. Copriva in parte il cadavere di Lidia Macchi, la ragazza violentata, uccisa a coltellate e ritrovata nei boschi del Varesotto 27 anni fa. Ma su quel pezzo da imballaggio c’era una scritta: "Elemento anta olmo". All’epoca i carabinieri indagarono fra tutti i mobilifici della zona, senza successo. Ora però il sostituto pg Carmen Manfredda ha chiesto di quel cartone alle figlie di Giuseppe Piccolomo, il presunto assassino di Lidia, e ha scoperto che poco tempo prima del delitto il loro papà aveva acquistato proprio dei mobili in olmo per la cameretta del fratellino. C'è anche questo indizio finora inedito, tra gli elementi a carico di Piccolomo, già all’ergastolo per il cosiddetto «delitto delle mani mozzate» e indagato per omicidio anche in relazione alla morte della moglie. A breve, salvo sorprese, la Procura generale milanese ne chiederà il processo pure per il brutale assassinio della giovane varesina tanti anni fa. Tra gli elementi più pesanti a suo carico, stando alle indagini del sostituto pg Manfredda, ci sono le dichiarazioni delle figlie di Piccolomo da cui è partita la nuova inchiesta: hanno raccontato che l’uomo si vantava con loro, quando erano piccole, di aver ucciso Lidia Macchi. Inoltre, le modalità dell’omicidio Macchi sono simili a quelle del delitto delle «mani mozzate»: 29 coltellate nel primo caso, 23 nel massacro di Carla Molinari, anziana amica di Piccolomo. E in entrambi i casi, anche con fendenti alla gola. In più, gli inquirenti hanno confrontato l’identikit redatto all’epoca sulla base delle testimonianze di quattro ragazze che avevano subito tentativi di aggressione in quel periodo, fine anni ’80, nel parcheggio dell’ospedale di Cittiglio, nel Varesotto, lo stesso ospedale dove Lidia era andata a trovare un’amica il 5 gennaio del 1987, quando scomparve. Identikit, seguito anche da un’elaborazione cosiddetta «photofit», compatibile, secondo gli inquirenti, con una fotografia che ritrae Piccolomo all’epoca, vista la forte somiglianza.

Quanto al pezzo di cartone da imballaggio che copriva in parte il cadavere della ragazza con quella frase «elemento anta olmo» e il suggerimento "maneggiare con cura" scritto in inglese, il sostituto pg Manfredda ha condotto nuovi accertamenti scoprendo che imballaggi di quel tipo venivano usati all’epoca da un’azienda di Laveno (Varese) e che il legno di olmo era utilizzato prevalentemente per mobili molto piccoli adatti soprattutto alle camerette dei bambini. Le due figlie di Piccolomo, testimoniando, hanno raccontato che nel 1986 il padre aveva comprato mobili del genere per la camera del loro fratellino. Da un atto notarile, infine, è risultato che, a differenza di quanto sostenuto dal presunto serial killer, il primo gennaio del 1986 Piccolomo e famiglia si erano già trasferiti in una casa distante poche centinaia di metri da quella della famiglia Macchi.

mario.consani@ilgiorno.net