Delitto Macchi, la controindagine parallela. Un gruppo di potere ostacolò i pm

Caso Macchi, in una relazione del 1988 le accuse dei magistrati. "Fuori dagli Uffici degli inquirenti si sono ‘autocostituiti’ gruppi che hanno seguito parallelamente la nostra indagine"

Lidia Macchi

Lidia Macchi

Varese, 22 luglio 2016 - Il paragrafo ha un titolo inequivocabile: «Reticenze ed interferenze». È uno dei diciassette che compongono le 87 pagine della relazione con cui (la data è quella 26 giugno 1988) il sostituto procuratore di Varese, Agostino Abate, riassume un anno e mezzo di indagini sull’omicidio di Lidia Macchi. Abate è stato il primo titolare dell’inchiesta sull’omicidio della studentessa non ancora ventunenne, militante di Comunione e Liberazione, massacrata con 29 coltellate la sera del 5 gennaio dell’’87 alla località Sass Pinin, nel territorio di Cittiglio. 

Due pagine scarse per un capitolo denso di pesantissime accuse, di severe denunce: la mancata collaborazione da parte delle persone più vicine a Lidia (al di fuori della cerchia familiare), la formazione, in parallelo agli inquirenti, di gruppi a cui facevano riferimento i testimoni, gruppi di potere entrati in scena per ostacolare l’iter della giustizia e l’approdo alla verità.

Parole grevi come piombo. Anche senza una citazione esplicita il riferimento è agli amici di Cl della vittima quando il magistrato stigmatizza che «le indagini non si sono assolutamente giovate di collaborazione proprio da parte di coloro che tanto impegno hanno messo nel rintracciare l’amica scomparsa». «Gli investigatori - prosegue Abate - hanno dovuto superare riottosità e diffidenze ingiustificate. Fuori dagli Uffici degli inquirenti si sono ‘autocostituiti’ gruppi che hanno seguito parallelamente la nostra indagine. Ad essi testimoni vincolati dal segreto istruttorio relazionavano pedissequamente sulle domande fatte loro finanche dal P.M. e discutevano con essi dei comportamenti da tenere». 

E ancora: «Gruppi di persone, legate da comuni esperienze professionali e/o religiose, si sono sentite autorizzate ad intervenire in un meccanismo processuale rispetto a quale erano completamente estranee, con l’intento, prima intuibile, poi serpeggiante, infine palese di ostacolare, di condizionare il corso della giustizia, impedendo di arrivare all’accertamento della verità».

Il magistrato prosegue: «Non diamo giudizi morali, perché non ci interessano professionalmente. Siamo testimoni di come tale gruppo di ‘potere’ sia sceso in campo con l’intento suddetto, costretto da determinati eventi a venire allo scoperto, nel giugno dello scorso anno. Alla fine di questa indagine si valuteranno i comportamenti di ciascuno alla luce delle norme del codice penale in tema di favoreggiamento ed altro. Come pm abbiamo il dovere di far rispettare la legge da parte di chiunque, senza riverenze, timori o esitazioni».

Il «giugno dello scorso anno» si riferisce ai lunghi interrogatori del pm Abate a quattro sacerdoti e un laico. Ne era seguita una polemica rovente. Un gruppo di potere che ha cercato di esercitare la sua influenza non solo sul caso Macchi. Le conclusioni di Abate tratteggiano uno scenario oscuro, inquietante. «Nelle carte di questo processo si sono accumulate le prove dell’esistenza di un gruppo di potere extra-giudiziario che ha tentato e tenta di condizionare questa indagine, ma che con altrettanta spregiudicatezza si interessa di altre vicende giudiziarie altrettanto gravi, ma rispetto alle quali è ancora più estraneo. La logica che lo guida è la convinzione di poter condizionare, piegandolo ai propri interessi particolari, il normale corso della giustizia, credendo finanche, a torto o a ragione, di trovare all’interno della Magistratura varesina e non, elementi sensibili alle loro illegali pressioni».

Per Agostino Abate la vicenda ha un epilogo amaro. Nel novembre del 2013 la procura generale avoca a sé l’inchiesta. La conduzione del caso Macchi è uno dei motivi per cui, con l’ordinanza del 21 luglio 2015, la sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura trasferisce al tribunale di Como il magistrato varesino, «incolpato» di avere «omesso o ritardato ingiustificatamente il compimento di atti e l’adozione delle determinazioni che gli incombevano».