Del Torchio, rapito e liberato: "Un miracolo che io sia qui. Ma rientrerò nelle Filippine"

Intervista all’ex missionario rapito dagli islamici di Abu Sayyaf di ANDREA GIANNI

Rolando Del Torchio durante il rinfresco nel municipio di Angera

Rolando Del Torchio durante il rinfresco nel municipio di Angera

«LE FILIPPINE sono il Paese in cui ho scelto di vivere: ho deciso di tornare lì e di ricominciare». Rolando Del Torchio, l’ex missionario rapito lo scorso 7 ottobre nel suo ristorante sull’isola di Mindanao e rilasciato dopo sei mesi, ieri mattina ha incontrato i cittadini di Angera, il paese affacciato sul lago Maggiore dove vive la famiglia. La festa organizzata dal Comune, nel palazzo municipale, è stata l’occasione per raccontare la sua esperienza e per annunciare la sua volontà di tornare nelle Filippine. Fino all’8 aprile l’ex missionario, 57 anni, è rimasto nelle mani di Abu Sayyaf, un gruppo islamico che si finanzia con sequestri di persona ed estorsioni, assieme ad altri ostaggi rapiti. Poi la liberazione, e il rientro in Italia.

Angera, 30 maggio 2016- Quale ricordo le hanno lasciato questi sei mesi di prigionia? «Ogni giorno ho avuto paura di morire. È un miracolo che sia qui, con la testa ancora attaccata al collo. Ho cercato di non perdere la speranza, fino a quando è avvenuto il miracolo».

Un ostaggio nelle mani dei rapitori, il canadese John Ridsdel, è stato ucciso. Per altri ostaggi i terroristi hanno lanciato un ultimatum. «Penso sempre ai miei compagni di prigionia. Ho conosciuto gli altri ostaggi ma potevamo comunicare soltanto con gli occhi. Quando c’erano scontri armati con le truppe governative ci mettevano tutti in una fossa per essere protetti da proiettili e bombe e avevamo la possibilità di parlare tra di noi. John è stato ucciso il giorno in cui io sono arrivato in Italia. Per gli gli altri ostaggi l’ultimatum scadrà il 13 giugno. Se le richieste dei rapitori non saranno soddisfatte verranno uccisi».

Che idea si è fatto dei rapitori? «Sono persone molto violente e determinate, il loro modello è quello dell’Isis e penso che sull’isola di Mindanao ci saranno altri spargimenti di sangue in futuro. Il mio sequestro è stato fatto con una motivazione religiosa, perché pensavano che fossi ancora un missionario. Mi dicevano “sei venuto a combatterci e noi ti abbiamo preso, aspettati un processo e un’esecuzione“. Fin dal primo minuto ho capito che era un motivo ben diverso da quello che aveva portato al sequestro di altri ostaggi, che sono stati presi per il riscatto».

Al di là della gioia per la liberazione, questa esperienza ha lasciato un trauma? «A volte ho dei flashback, mi sento osservato e ho un po’ di timore nell’affrontare le serate quando sono da solo. Ho voglia di ricominciare, cerco le relazioni con gli altri, cerco di stare con persone che mi raccontano la loro giornata. Mi fa sentire ancora parte della vita».

Ha pensato di lasciare le Filippine? «La mia vita è lì, ho bisogno di lavorare e a luglio tornerò nell’arcipelago. Le autorità mi hanno assicurato che sarò ben protetto ma dovrò trovare una sistemazione fuori dalla grande isola di Mindanao, che per me non è più sicura».