Lidia Macchi, colpo di scena al processo: "Un ragazzo mi disse: sono il killer"

In udienza l'amica del cuore e la compagna che parla dopo 27 anni

Daniela Rotelli fuori dal tribunale

Daniela Rotelli fuori dal tribunale

Varese, 20 dicembre 2017 - «Una mia amica, Daniela Rotelli, mi ha riferito di essere stata fermata ai tempi dell’università da un ragazzo che le aveva detto di essere l’assassino di Lidia Macchi». Lo riferisce Paola Bonari, l’amica che Lidia va a trovare all’ospedale di Cittiglio, dove era ricoverata dopo un incidente stradale, la sera del 5 gennaio 1987, poco prima di essere massacrata con 29 coltellate. La testimonianza del’ultima persona a vedere Lidia ancora in vita suona come un colpo di scena nel processo davanti alla Corte d’Assise di Varese a carico di Stefano Binda, l’uomo accusato di omicidio. La telefonata di Daniela a Paola, amica, compagna di università alla Statale di Milano e coinquilina, viene intercettata alle 21.38 del 9 febbraio di un anno fa, poco meno di un mese dopo l’arresto di Binda. Una trasmissione televisiva ha rivitalizzato nella memoria della Rotelli il lontanissimo, inquietante episodio che si era sforzata di dimenticare. In un primo tempo la teste fissa l’incontro fra l’amica il ragazzo al 1987, in seguito lo posticipa al ‘90-‘91. Il cognome del giovane? «Mai saputo». Il nome? «Iniziava per “E”». Nessuna delle due amiche ha pensato di rivolgersi alla polizia, all’autorità giudiziaria. Perché? «Quel ragazzo - spiega la Bonari - l’ho conosciuto. Non era Binda. Era un soggetto un po’ particolare. Ho pensato a una uscita, una boutade per impressionare Daniela». 

«Cos'ha consigliato alla sua amica?», chiede il difensore Patrizia Esposito. «Le ho consigliato di rivolgersi a un avvocato, l’avvocato Tosoni. Io l’ho avvertito, non so se Daniela abbia preso contatto con lui». L’atmosfera non tarda ad arroventarsi. «Lei è una Memor Domini, si è tenuta questa storia per anni e ne parla qui per la prima volta», saetta il sostituto procuratore generale Gemma Gualdi. «Questa testimonianza - rincara poco dopo - grida allo scandalo». Si contiene a fatica l’avvocato Daniele Pizzi, parte civile per la famiglia Macchi: «Non ritengo assolutamente verosimile che non ricordi né nome né cognome, però ricordi che non era una persona attendibile. Io non le credo». «La deposizione della Bonari - aggiunge più tardi il legale parlando con i cronisti - è un insulto alla memoria di Lidia».

Su richiesta della pg Daniela Rotelli viene prelevata nella sua abitazione di Bozzolo, nel Mantovano. Compare in aula nel primo pomeriggio. «Il ragazzo diceva di chiamarsi Lelio e di essere di Varese. Non ho mai saputo il cognome. Alto sul metro e 70, moro, occhi scuri, al massimo 25-26 anni, ogni tanto capitava alla Statale. Attaccava discorso con tutti, faceva discorsi strani. Si avvicinava ai luoghi frequentati dai ragazzi di Comunione e Liberazione, ma non entrava. L’ho incontrato una decina di volte, quella è stata la penultima».   «È stato non più tardi della primavera del ‘90 - prosegue - era ancora inverno. Mi ha seguita mentre andavo a messa in una chiesa vicina, ero di fretta. In quel breve tratto di strada, improvvisamente, mi ha detto: “Gliele ho date io tutte quelle coltellate alla Lidia”». La teste arricchisce il racconto con un particolare. Già all’epoca aveva fatto partecipe Paola Bonari: «La prima cosa che ho pensato è stata quella di dirlo alla mia amica Paola, perché sapevo che conosceva i fatti. Lei mi ha rincuorato: “Lascia stare. È fuori di testa”. È finita qui. Ho rimosso tutto». E sono così 27 anni di silenzi.

Daniela Rotelli conferma di avere parlato con la Bonari poco dopo l’arresto di Binda e di aver ricevuto il consiglio di prendere contatto con l’avvocato Paolo Tosoni. Ha parlato con il penalista milanese e gli ha scritto una email. Appare una logica conseguenza quello che la teste dice poco dopo. Nel mese di ottobre ottobre una “voce femminile”, un’assistente del sostituto pg Carmen Manfredda, titolare delle indagini sul caso Macchi, l’ha chiamata per sollecitare la sua testimonianza. Non l’ha fatto, aveva seri problemi familiari. Il computer con cui è stata redatta l’email? «È esploso». La password? «Non la conosco». Torna, viene riproposta e rimane ad aleggiare, la domanda cardine dell’intera udienza: perché in tutto questo tempo, non si è rivolta a organismi di polizia?