Delitto Lidia Macchi, giallo sul capello sparito: "Era dell’assassino"

Le “grandi pulizie” nell’ufficio corpi di reato del tribunale di Varese costarono la distruzione della traccia dell’assassino

L’ex giudice Ottavio D’Agostino che autorizzò la distruzione dei reperti

L’ex giudice Ottavio D’Agostino che autorizzò la distruzione dei reperti

Varese, 20 settembre 2017 - Quelle “grandi pulizie” nell’ufficio corpi di reato del tribunale di Varese che costarono la distruzione della traccia dell’assassino di Lidia Macchi. L’interrogativo su un capello biondo. È la nuova udienza del processo a Stefano Binda, in Assise a Varese. Va in scena il rimpallo. La distruzione dei reperti è disposta nel 2000 dal gip Ottavio D’Agostino. Vanno perduti abiti e indumenti della studentessa, gli stivali, undici vetrini con reperti organici dell’assassino, altri due con frammenti di indumenti della vittima. D’Agostino, in pensione da un paio d’anni, è il primo teste chiamato dall’avvocato Daniele Pizzi, parte civile per la famiglia Macchi. «Venne da me il dottor Ciccia, responsabile dell’ufficio corpi di reato. Mi disse che lì dentro non ci si poteva più muovere. Gli chiesi un elenco dei corpi di reato che intendeva distruggere. Mi arrivò con l’indicazione del numero del registro, non del procedimento a cui si riferivano. Mai avrei autorizzato la distruzione di reperti di procedimenti in corso, meno che mai di Lidia Macchi. Quando, dopo la distruzione, Ciccia mi rimandò indietro l’elenco e vidi scritto a penna ‘Lidia Macchi’, mi si rizzarono i capelli in testa. Corsi da lui: ‘Ma cosa ha fatto, c’è un processo ancora aperto’. Mi rispose che l’avevo autorizzato io. Scrissi al dottor Abate (il pm titolare delle indagini) per avvisarlo di cosa era successo, ma non ricevetti risposta». «Ci fu molta leggerezza da parte di Ciccia. Io non mi sento colpevole. Non potevo sapere a memoria i numeri del registro».

Il nome ‘Lidia Macchi’ è stato aggiunto a cose fatte, come sostiene l’ex giudice? Il sostituto pg Gemma Gualdi fa osservare come il nome sia scritto con la stessa grafia e di seguito. Sulla teoria dell’aggiunta successiva, il pg è tranchant: «Non c’è alcun elemento per dire ciò che lei assume». Sullo schermo scorrono le slide di alcune pagine dell’elenco. Al numero 5151 compare l’annotazione «Vari indumenti trovati sul cadavere Lidia Macchi». Il numero 5164 si riferisce a «3 vetrini alla Medicina legale Va(rese)», con «Lidia Macchi» fra parentesi. Ha dubbi anche il presidente Orazio Muscato che chiede se prima di disporre le distruzione fosse stata avvertita la procura, che avrebbe potuto opporsi. Non risulta alcun avviso. Il teste non ricorda. D’Agostino evoca ancora Agostino Abate, al quale sostiene di avere sollecitato più volte l’esame del dna su un capello biondo, trovato nell’auto Lidia. Il pm lo teneva chiuso in un armadio nel suo ufficio. «Il dottor Abate voleva incriminare don Antonio Costabile, che era biondo. Pensava che quel capello portasse a lui». Aggiunge che il sostituto procuratore varesino era rimasto scottato dalla vicenda Macchi. «Il riferimento a Lidia Macchi lo faceva stare male». Depone Adriano Paroli, avvocato ed ex sindaco di Brescia. Era stata Patrizia Bianchi, teste cardine dell’accusa, a parlare di una presunta operazione di depistaggio a favore di Binda, che avrebbe coinvolto tre avvocati: Paroli, Piergiorgio Vittorini, altro legale bresciano, Paolo Tosoni. «Una cosa fuori dalla realtà», dice Paroli. Ha scritto lei la lettera “In morte di un’amica”, chiede Pizzi? «No», dice Paroli, «e quella grafia non la conosco».