Delitto Lidia Macchi, una nuova beffa. "Le provette di Dna? Introvabili"

Varese, da Roma e dall'Inghilterra brutte notizie: altri reperti spariti

Lidia Macchi

Lidia Macchi

Varese, 16 settembre 2017 - Dove sono i vetrini? Dove sono le “spatole” con cui sono stati lavorati? Dove sono le provette che ne sono state ricavate e che potrebbero avere trattenuto residui del liquido seminale dell’assassino di Lidia Macchi? Torna e si ripropone con forza un interrogativo plurimo al processo, in Corte d’Assise a Varese, a Stefano Binda, imputato dell’omicidio della studentessa di Comunione e Liberazione. Domande che scaturiscono dalla deposizione di Vincenzo Pascali, direttore dell’istituto di medicina legale dell’Università Cattolica di Roma. 

Mario Tavani, direttore della Medicina legale di Varese esegue l’autopsia l’8 gennaio 1987, tre giorni dopo che Lidia è stata trucidata con 29 coltellate al Sass Pinin di Cittiglio. Raccoglie in quattro vetrini circa 15mila spermatozoi rinvenuti sulla vittima. Trascorre un anno. Perché? A mettere fine alla stasi è il giudice istruttore istruttore di Varese, Ottavio Gristina, al quale è passata l’inchiesta, che il 21 marzo dell’88 affida una perizia sui quattro vetrini e su altri che contengono reperti biologici alla Medicina legale della Cattolica di Roma, diretta all’epoca da Angelo Fiori (di cui fa parte Pascali). I quattro vetrini vengono “spatolati” per raccogliere ed estrarre il materiale, che confluisce in due provette. Le provette vengono portate per l’estrazione del Dna in Gran Bretagna, al laboratorio “Ici Cellmark” di Abington, che dispone, fra l’altro, di sonde molecolari. La risposta degli esperti inglesi, mesi dopo, è scoraggiante: il materiale è troppo scarso per ottenerne il Dna. Una risposta accompagnata da un rilievo critico per dire, in sostanza, che sarebbe stato più opportuno mettere a disposizione i vetrini. A questo punto, diventa impossibile ogni comparazione con le quattro persone che, nell’aprile dell’88, si sono sottoposte volontariamente al test. Peccato perché avrebbe dopo si sarebbe potuto ritentare.

«L’anno dopo - dice il professore - un gruppo americano mise a punto una tecnica completamente innovativa, che avrebbe permesso un risultato positivo». Le due provette sono ancora ad Abington? In teoria sì, visto non c’è traccia di un loro ritorno in Italia? I vetrini e le “spatole” sono alla Medicina legale romana? Si è messa alla loro ricerca il sostituto procuratore generale Gemma Gualdi, che sostiene l’accusa nel processo di Varese. Il decreto di perquisizione porta la data dello scorso 6 luglio. «La ricerca fu negativa», dice il professor Pascali. Non sono stati trovati «cose o documenti che di riferiscono al processo». E il mistero del profilo genetico resta intatto.