Omicidio Lidia Macchi: agende, poesie dal passato e un'altra pista trascurata

Processo a Varese, testimoniano gli investigatori

Delitto Macchi, Stefano Binda a processo

Delitto Macchi, Stefano Binda a processo

Varese, 29 aprile 2017 - Come uscì il nome di Stefano Binda, l’uomo quasi cinquantenne sotto processo per l’omicidio di Lidia Macchi, la studentessa trucidata con 29 coltellate la sera del 5 gennaio 1987 nella zona di Cittiglio? Lo racconta, davanti alla Corte d’Assise di Varese, l’assistente capo della Squadra mobile Silvia Nanni. È lei la prima a raccogliere il racconto di Patrizia Bianchi, la donna legata a Binda da un’intensa amicizia giovanile, platonicamente innamorata di lui e del suo fascino culturale e intellettuale. Entrambi, come Lidia, studenti di liceo classico e militanti di Comunione e liberazione. Dalle risposte dell’assistente Nanni alle domande del sostituto procuratore generale Gemma Gualdi esce una storia racchiusa nelle agende di entrambi, fitte di appunti e notazioni, pagine tra punte di stellette. Come un simbolo, una firma. Tre stellette anche in una delle quattro cartoline scritte da Binda a Patrizia. Una serie di stellette nel foglio trovato nella borsetta rimasto sotto il corpo di Lidia, che racchiude la confessione di un amore impossibile. Nella borsa anche la trascrizione di una delle poesie più disperate di Pavese, “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. 

E' la molla che la conduce per la prima volta, il 4 agosto 2014, in Questura a Varese. Ha saputo da una trasmissione televisiva della poesia di Pavese nella borsa di Lidia Macchi. Era la passione, il “cavallo di battaglia” di Stefano. Torna negli uffici della Mobile il 15 maggio dell’anno successivo. Una quotidiano ha pubblicato “In morte di un’amica”, la prosa anonima recapitata alla famiglia Macchi il 10 gennaio del 1987, giorno dei funerali di Lidia. Ha ravvisato nella grafia qualcosa di familiare, di conosciuto. Consegna le quattro cartoline che Stefano le ha scritto da luoghi di vacanza, fra l’84 e l’85. L’abitazione di Binda, a Brebbia, viene perquista per quattro volte, dal settembre 2015 al 25 febbraio 2016. Un’agenda del 1986 custodisce al suo interno un foglio con un brano di greco, sul retro le parole “Stefano è un barbaro assassino”. La prima pagina di una Smemoranda del 1989 è intestata “Binda Stefano che però si è pentito”. Nel cassetto di un mobile la poesia pavesiana. In un libro e in una cartolina lo stesso simbolo, una sorta di ostia, disgnato in calce a “In morte di un’amica”.  Anche Patrizia ha un’agenda “dedicata” a Stefano. Le poesie che ha condiviso, che l’hanno unita a Binda sono contrassegnate con le stellette.

La prima parte dell’udienza è occupata dalla deposizione di Giorgio Paolillo, capo della Squadra mobile varesina all’epoca dell’omicidio Macchi. La scompara di Lidia. La tenue speranza del padre Giorgio di una fuga d’amore. La tremenda scoperta. Nel controesame con il difensore Sergio Martelli, l’ex funzionario parla del’immediato, forte contraccolpo seguito all’arresto di un prete per falsa testimonianza. «Chi si mosse da Milano?», chiede il legale. «Per un certo periodo mi sembra, se non sbaglio, abbiamo intercettato anche il vicariato». Aggiunge che si trattava di «ambiente religioso». «Ma anche a livello del cardinale Martini, addirittura?» (allora arcivescovo ndr), insiste il difensore? «La segreteria», è la risposta. «Ho avuto la sensazione - dice ancora Paolillo - che gli amici di Lidia si chiudessero a riccio». Qualche sospetta volteggia su Giuseppe Sotgiu, compagno di liceo della vittima e amico di Binda, che non ricorda bene la sua serata di quel 5 gennaio. È il primo a fare il nome di Stefano Binda. Viene evocato il pm Agostino Abate, all’epoca titolare delle indagini. «Nel maggio 2009 un uomo consegnò in questura due lettere che, a suo giudizio, contenevano elementi fondamentali. Era un soggetto con piccoli precedenti per droga, che era stato ricoverato per sei anni un ospedale psichiatrico giudiziario. Avvisai la procura che avrei provveduto a sentirlo. Ma il pm mi diffidò dall’intraprendere qualsiasi iniziativa in assenza di una sua specifica autorizzazione».