Delitto Lidia Macchi, testimone ci ripensa e scagiona Binda: era in vacanza con me

Soggiorno a Pragelato nei giorni del delitto

Stefano Binda

Stefano Binda

Varese, 15 giugno 2017 - «Stefano Binda era con noi nella vacanza della Gioventù Studentesca a Pragelato. Era in camera con me, dormivamo nello stesso letto a castello, io sopra e lui sotto». Testimone citato dall’accusa, Gianluca Bacchi Mellini, cinquantenne commercialista di Luino, offre un assist imprevisto alla difesa di Stefano Binda, processato in Corte d’Assise a Varese per l’omicidio di Lidia Macchi. Fino alla deflagrazione di ieri uno solo dei circa cinquanta partecipanti al soggiorno vacanza (Donato Telesca, altro teste della giornata) aveva riferito in istruttoria di ricordare la presenza di Binda, in quelle giornate, iniziate il 1° gennaio 1987 e terminate il 6, ventiquattr’ore dopo l’assassinio di Lidia, trucidata con 29 coltellate la sera del 5 gennaio.

Ricorda la presenza di Binda, è l’esordio del sostituto procuratore generale Gemma Gualdi? «Quando ero stato sentito in ottobre ho detto di non ricordare. Adesso ricordo che c’era. Il primo imput è stato dopo l’arresto di Binda. Ho pensato e ripensato. Ho ricordato il letto a castello. Io dormivo sempre sopra. Chi c’era sotto? Stefano Binda». Ancora prima che scatti la controffensiva del pg, è il presidente Orazio Muscato a intervenire: «Perché non è andato alla Procura generale?». «Pensavo che Binda uscisse presto. C’era un altro teste che aveva un ricordo più chiaro del mio e non era stato creduto. Figurati, ho pensato, se credono a me. Ho sbagliato». «Ci viene a dire questa cosa oggi. Se fosse stato chiamato fra sei mesi l’avrebbe detto fra sei mesi?». «Me ne assumo la responsabilità, soprattutto nei confronti di Stefano Binda. Ho pensato che l’avrei detto detto al processo», è la risposta. Se all’epoca il commercialista per gli amici era Jean, Donato Telesca era Chico. «Vede Binda in quest’aula?». Il teste Telesca compie con lo sguardo il periplo dell’aula prima di fissarlo sull’imputato.

«È un po’ cambiato, è dimagrito». Il suo ricordo, alibi per Binda, è circoscritto a una mattinata in un bar del Sestriere. «Eravamo io, Stefano e un gruppettino, che non sciavamo. Stefano era un ottimo intrattenitore». Gli vengono mostrate le foto di quelle vacanze. Sullo sfondo di una due persone con i doposci. «Una di queste potrebbe essere Binda». A trent'anni dalla morte, Lidia Macchi “parla” ancora. Una tenace ricerca da parte del pg Gualdi ha fatto ritrovare, all’istituto di medicina legale di Varese, quattro vetrini con reperti cerebrali, renali, polmonari uterini della giovane vittima. Nella prossima udienza la Corte deciderà se acquisirli. «Scandaloso - commenta l’avvocato Daniele Pizzi , parte civile per la famiglia Macchi - che solo grazie all’attività della procura generale e alla sensibilità della Corte sia avvenuto questo ritrovamento. Fino a un mese fa mi era stato assicurato dalla medicina legale che presso di loro non c’erano più reperti del caso Macchi». Reperti nell’ufficio corpi di reato del tribunale di Varese, distrutti come i vetrini con le tracce biologiche dell’assassino, spariti come la borsa di Lidia. Depone Antonino Ciccia, dirigente dell’“area penale” del palazzo di giustizia. I reperti erano indicati sul registro con il nome “Lidia Macchi” scritto fra parentesi: non li ha salvati dalla distruzione.