Delitto Lidia Macchi, sospetti reciproci in Cl: "E se l’assassino fosse uno di noi?"

Nei verbali la testimonianza della coinquilina

Lidia Macchi

Lidia Macchi

Varese, 24 novembre 2017 - Il clima plumbeo a Varese nei giorni che seguono l’omicidio di Lidia Macchi. Disagi, incertezze, crisi di fiducia e paure fra i giovani di Comunione e Liberazione. L’incontro con don Fabio Baroncini, responsabile del gruppo dal ’66 al 1986, prima del trasferimento a Milano. Echi, ricordi, turbamenti nel corso dell’esame di Paola Bonari nell’incidente probatorio del 15 febbraio di un anno fa. Paola è l’amica e coinquilina di Lidia, a Milano. È ricoverata all’ospedale di Cittiglio dopo un incidente. Lidia le fa visita nella serata del 5 gennaio 1987. Poco dopo, uscita dall’ospedale, verrà trucidata con 29 coltellate. Don Baroncini incontra la Bonari (che non ricorda chi prese l’iniziativa di vedersi) e altri due o tre ragazzi di Cl nella sua nuova parrocchia, a Niguarda. Don Fabio fa una battuta sul Kyrie con cui inizia la messa, la richiesta di pietà. «E poi disse - riferisce la Bonari - che noi avevamo, diciamo, sotto, mi passi il termine. Non che lo avesse usato lui, però il concetto è sotto, l’attacco di questa ipotesi investigativa per cui fatta l’esclusione di me, che ero in ospedale, qualunque altro amico poteva essere l’assassino di Lidia, no? Avevamo reagito generosamente ma non razionalmente, cioè come... lasciandoci in qualche modo colpire, cioè mettere in dubbio, no? Mettere in dubbio un rapporto di fiducia tra noi».

Il gip Anna Giorgetti chiede di spiegare. Il prete lamentava che i ragazzi avessero in qualche modo consentito che venisse formulata l’ipotesi di un assassino appartenente a Cl? Oppure «era preoccupato che venisse scoperto chi era l’assassino e che «fosse un appartenente a Cl?». La rispostaè un “no” a entrambe le domande. La teste cerca di spiegare perché usi l’espressione «messo in crisi». Era un discorso di fiducia vicendevole nel gruppo.

«Messo in crisi rispetto a ... una fiducia reciproca che ci portava a dire che nessuno di noi potesse essere un assassino... cioè che per il fatto che questa era l’ipotesi investigativa del magistrato, mi dovessi sentire portata a guardare l’amico ...». Ricorda che dopo essere stati ascoltati dagli inquirenti i ragazzi si raccontavano “qualcosa” di ciò che era stato chiesto. Subito dopo riprende il discorso su quelle ombra di sospetto. «Gli interrogatori erano impostati dal magistrato sulla base dell’ipotesi che fosse un amico e che anche ai genitori di Lidia venisse, come dire, proposta questa lettura, che quindi anche qualcuno dei ... degli amici di Lidia che frequentavano casa loro nel periodo successivo potesse essere il responsabile. Allora ... questo, diciamo questo atteggiamento, questa posizione poteva ingenerare in noi uno sguardo sospettoso nei confronti gli uni degli altri». Viene posta una (inevitabile) domanda diretta: «Ha mai dubitato di qualcuno dei suoi amici?». La risposta è negativa, perché «era nel clima degli interrogatori». «Tutti incentrati su domande relative appunto all’ipotesi che potesse essere un amico, un conoscente, un ... uno della cerchia di Cl, ecco».