Caso Uva: giudice, la sorella fu condizionata dall'opacità delle indagini

Motivazioni dell'assoluzione di Lucia Uva dall'accusa di aver diffamato carabinieri e poliziotti

Lucia Uva

Lucia Uva

Varese, 23 giugno 2016 - Pur essendo responsabile di “condotte eccedenti la liceità” la sorella di Giuseppe Uva, l'uomo morto all'ospedale di Varese nel giugno del 2008 dopo aver trascorso parte della notte nella caserma dei carabinieri, è stata assolta dall'accusa di aver diffamato militari e poliziotti perché ha commesso “un errore determinato dalla situazione di oggettiva opacità delle indagini”. Lo ha messo nero su bianco il giudice di Varese Cristina Marzagalli nelle motivazioni della sentenza con cui lo scorso 18 aprile ha assolto Lucia Uva, difesa dall'avvocato Fabio Ambrosetti, nel processo con al centro alcune dichiarazioni della donna mandate in onda nell'ottobre 2011 nel programma televisivo Le Iene, frasi scritte su Facebook e un'intervista nel documentario 'Nei secoli fedele'.

Il processo è scaturito da una querela presentata in passato dai due carabinieri e dai sei poliziotti che lo scorso 15 aprile sono stati assolti dall'accusa di omicidio preterintenzionale nel processo con al centro la morte di Giuseppe Uva. “Lucia Uva ha individuato gli appartenenti alle forze dell'ordine quali autori del fatto ingiusto – scrive il giudice – e ne ha fatto bersagli della sua indignazione con condotte eccedenti la liceità. In realtà essi non hanno alcuna responsabilità per la situazione di incertezza creatasi – prosegue - anzi ne sono a loro volta vittime”. Secondo il giudice, quindi, “le carenze investigative e l'atteggiamento oppositivo del pm” all'epoca titolare delle indagini sulla morte di Uva “hanno comprensibilmente indotto Lucia Uva a sospettare l'esistenza di una verità scomoda e a sospettare che gli apparati dello Stato stessero coprendo un crimine commesso dai suoi funzionari”.