Milano, 10 gennaio 2014 - Il boss parla. E mentre parla ride: «Pum, pum... Gli picchia il muso cinque o sei volte... Gli ha scassato i denti, il naso...». Ride ancora, soddisfatto: «Lo ha fatto quadrato... Gli ha sfasciato la testa, proprio». Una Citroen piena di microfoni. Due mafiosi che chiacchierano indisturbati, per mesi. All’ascolto i carabinieri. Che registrano, interpretano, ricostruiscono: omicidi, sequestri, minacce, estorsioni, pestaggi. Un linguaggio crudo, pieno di autocompiacimento: più atroci sono i racconti, più il boss gongola. Così giorno dopo giorno, gli investigatori annotano il romanzo criminale di uno dei capibastone maggiormente temuti della Milano dei Barbaro-Papalia, il braccio operativo della cosca dagli anni ’70. Fino a oggi. Agostino Catanzariti, finito dietro le sbarre grazie all’operazione Platino, è uno dei personaggi di spicco della ’ndrangheta al Nord. Detiene la dote «del Vangelo», un gradino piuttosto alto nella gerarchia della mala calabrese: chi ha il Vangelo custodisce le regole della cosca. Dice lui stesso: «Ché, poi, abbiamo tutti il “vangelo”, però dobbiamo tutti rispettare a lui...».

Ad ascoltarlo c’è Michele Grillo (anche lui arrestato mercoledì insieme a Catanzariti), un altro riesumato da una carriera malavitosa che affonda le radici nei lontani ’70 senza mai interrompersi davvero. E i lunghi anni dietro le sbarre non servono a far cambiare il pelo. Una volta fuori — Catanzariti è stato dietro le sbarre dal 1981 al 2009 — tutto è ricominciato esattamente come prima. Con delle aggravanti: lui che è libero, non dimentica gli amici che ancora scontano la pena. In primis i «super capi»: Domenico, Rocco, Antonio Papalia. È lo stesso Agostino a rivelarlo all’onnipresente Grillo: «Mille euro ciascuno: pigliavo mille euro io, mille euro mio figlio, mandavo 500 a Micu, 500 euro a Rocco, 500 a ‘Ntoni...».

Dove Micu è Domenico e ’Ntoni sta per Antonio. La loro amicizia nasce nei tempi di Platì e si consolida quando anche Catanzariti decide di trasferirsi al Nord, a Corsico, nel 1969. Da quel momento — ricostruisce la procura — partecipa a ogni fase dell’ascesa criminale del clan. A cominciare dall’omicidio del nomade Giuseppe De Rosa, ammazzato «per un fatto di donne, uno sgarro», rimasto insoluto. Ebbene, lo stesso Agostino, nelle sue conversazioni con Grillo, indicherà a distanza di quarant’anni il responsabile: «Rocco», ovvero Rocco Papalia. Ieri come oggi, poco o nulla è cambiato. Gli affari del boss, pure adesso che ha superato i sessant’anni — è del 1947 — non hanno perso lo smalto. Passata la moda dei sequestri — gliene vengono imputati 4 nei soli ’70 — si dedica alle estorsioni. «Ristoranti, negozi».

Ancora la vanità, il bisogno di raccontare. In un’intercettazione Catanzariti ricorda a Grillo un pestaggio contro un imprenditore che «non voleva dare l’assegno». E precisa: «Uno ci voleva fottere diciotto milioni». Così non risparmia i particolari: «Siamo entrati: io, questo Cesarino, quel cane di mandria di Vincenzone, là... Appena siamo entrati, c’era un geometra che stava uscendo. Gli dico: “No geometra, scusa un attimo che deve parlargli lui, aspetta qua!”. Lo abbiamo preso e l’abbiamo tenuto in modo che non andasse a dare l’allarme; questo bestia di Vincenzone, appena siamo entrati, lo prende dai capelli, così. Con tre quattro colpi che gli ha tirato, gli ha sfasciato la testa proprio... che gliela picchiava nel tavolo». Non c’è pietà: la violenza genera solo autocompiacimento. Agostino il tuttofare non si lascia sfuggire niente, dalle estorsioni alla droga, mostra tutta la sua esperienza criminale. Lo spaccio è la sua altra attività. Se qualcuno lo intralcia, lui si infuria, minaccia sangue: «Se sono questi zingari, li bruciamo... li potevamo proprio sequestrare e li... torturavamo fino a quando non dicono come e quanto...».

di Agnese Pini