Paziente uccisa da infezione, cinque chirurghi dell’Humanitas ora rischiano il processo

La donna era stata operata per una cisti alla testa di Mario Consani

L'esterno dell'Humanitas di Rozzano (Mdf)

L'esterno dell'Humanitas di Rozzano (Mdf)

Milano, 7 luglio 2014 - Venti giorni per morire. Entrò in ospedale per un intervento chirurgico alla testa andato a buon fine, ma venne uccisa da un’infezione contratta in corsia e, secondo l’accusa, non diagnosticata tempestivamente e curata peggio. Tutto in meno di tre settimane. Ora cinque neurochirurghi dell’Humanitas di Rozzano, la clinica nella quale tre anni fa morì la paziente 45enne, devono difendersi dall’accusa di omicidio colposo

V. M., la vittima, venne operata alla testa il 19 maggio 2011 per l’asportazione di una cisti intracranica che le comprimeva una certa zona del cervello e le aveva causato una “lesione espansiva”. L’intervento tecnicamente riuscì, ma la poveretta contrasse in ospedale un’infezione meningea che, se trattata con una corretta terapia antibiotica, secondo i consulenti della Procura non l’avrebbe uccisa.

Invece non andò così. E la relazione medico-legale che sostiene l’inchiesta giudiziaria è un vero e proprio atto d’accusa professionale contro i 5 medici imputati di omicidio colposo. Tutti neurochirurghi, sono il professionista che seguì in prima persona il percorso di diagnosi e cura della paziente, e quattro suoi colleghi che si alternarono in reparto nei giorni successivi, rendendosi responsabili, stando all’imputazione, di una lunga serie di omissioni e negligenze. 

Non avrebbero valutato e considerato il forte mal di testa della donna dopo l’intervento, non avrebbero adottato alcuna terapia pur dopo accertamenti microbiologici che avrebbero dovuto metterli in allarme, non eseguirono gli indici infiammatori di prassi e avrebbero somminsitrato un antibiotico del tutto inadeguato. In seguito, avrebbero anche omesso di avvalersi del consulto di uno specialista infettivologo e per due settimane, dal 19 maggio al 4 giugno, non avrebbero effettuato i necessari controlli ematochimici “che qualora fossero stati tempestivamente disposti avrebbero indirizzato verso un precoce e corretto inquadramento dei diversi sintomi che la paziente stava manifestando” e che fra l’altro erano correttamente riportati nel diario clinico.

Ma non è tutto. Quando i ritardi diagnostici e le negligenze - accusa la Procura - permisero “che il processo infettivo giungesse a interessare il sistema nervoso centrale”, anche allora i cinque medici effettuarono “scelte terapeutiche sbagliate e inidonee” che, insieme a quelle fatte in precedenza, avrebbero “reso la morte di V.M. assolutamente non evitabile”. Ora sarà il giudice dell’udienza preliminare a decidere se i camici bianchi sott’accusa devono essere processati. L’Humanitas ha già versato ai familiari della donna un risarcimento di oltre 200 mila euro.