Sognano Belotti, ma solo un baby calciatore su 5.000 ce la fa

Il grande business delle scuole calcio che dovrebbero insegnare ai bambini i valori dell sport e spesso invece sono fabbriche di illusioni

Un baby calciatore

Un baby calciatore

Milano, 9 giugno 2017 - Giugno, cala il sipario sulle lezioni di italiano, matematica e storia ma si aprono altre "scuole", quelle che dovrebbero insegnare ai bambini i valori dell sport. Le scuole calcio non vanno mai in ferie, anzi nei mesi estivi raddoppiano e triplicano le offerte: in pratica "le lezioni"" di un anno compresse in una settimana di vacanza e sport. Purtroppo in alcuni casi, trattandosi di un vero e proprio business, parliamo di centri di illusioni e di delusioni per piccoli calciatori che sognano un futuro dorato su un prato verde. Perché dietro ad un pallone spesso si nasconde una sorta di rete che assicura profitti agli organizzatori e imbriglia la fantasia e la voglia matta di correre dei bambini.

Senza poi parlare della scarsa formazione di alcuni allenatori nelle mani dei quali, con certa superficialità, i genitori consegnano i loro bambini. Si tratta talvolta di tecnici improvvisati, privi di una solida formazione didattica e pedagogica, malati di agonismo. Per loro contano solo le partitelle e le urla non comprendendo che i bambini ad una certa età fanno solo sogni di cuoio. Guardano il pallone come una sfera di cristallo, ci leggono un futuro da campione: una maglia importante, una fascia sul braccio, uno stadio ai loro piedi. Ma la realtà è diversa: per un esercito di centinaia di migliaia di minicalciatori che hanno nomi da peluche (“piccoli amici“ e “pulcini“) solo uno su 5mila arriverà a esordire in A. Lo dicono le statistiche, purtroppo quel "Uno su mille ce la fa" di Gianni Morandi è una previsione fin troppo ottimistica. Negli ultimi quindici anni hanno messo piede per la prima volta su un campo della massima serie meno di un migliaio di ragazzi cresciuti nel vivaio. E quel manipolo di aspiranti talenti finirà a fare altro: meccanico, imbianchino, impiegato, ragioniere.

Il problema non sono i sogni (legittimi) dei bambini. E’ ciò che si fa credere loro. Le false promesse. I trappoloni. E tutto ciò che serve per alimentare il business delle scuole calcio, circa 8mila in Italia. Le rette annuali variano da 250 a 900 euro e garantiscono ai gestori ricavi a molti zeri. Realtà spesso piccole, che contribuiscono alla formazione e alla crescita dei bimbi (certamente più affidabili quelle considerate d’elitè dopo rigide selezioni). Giusto incoraggiare tutti, soprattutto i più bravi, senza bruciare i sogni di chi ha meno talento, ma neppure ingigantire le illusioni. Durante l’anno chi frequenta la scuola calcio dovrebbe solo pensare a divertirsi, a socializzare e condividere gli obiettivi con i compagni di squadra, perché tutto ciò dà allegria e indimenticabili emozioni. Insomma, è legittimo sognare, ma i ragazzi vanno protetti.

Prima di tutto da madri e padri, che spesso invece cercano il riscatto della loro vita attraverso i bambini. Poi dai personaggi che s’aggirano per i campi: così accade spesso che, soprattutto a fine stagione, durante i tornei qualcuno si spacci per agente Fifa o talent scout, avvicinando i genitori più ingenui. Con false promesse o con regalini per convincere i figli a cambiare scuola calcio. Finché i bambini hanno 8-9 anni la situazione si può anche gestire. Poi anche fra i genitori cresce l’ansia di avere in casa il nuovo Totti o il futuro Belotti, e persino i nonni cominciano a lamentarsi. Protestano se il bimbo gioca in una squadra mista, con le bambine, pensano “proprio a me?” E vorrebbero che il proprio figlio giocasse sempre, che avesse più spazio. A quel punto si capisce quanto sia valido un dirigente (che deve ascoltare e non promettere) o un istruttore (il bambino va comunque incoraggiato, mai ignorato). L’importante è non farsi illudere.