I 50 anni di Dario Hubner: "Il mio calcio, fra sigarette e birra"

Il bomber: "Fumavo prima di far gol, il vizio è rimasto. Chi mi somiglia? Belotti, parla poco e segna"

Dario Hubner

Dario Hubner

Capergnanica (Cremona), 29 aprile 2017 - Il telefonino squilla senza sosta. Non è quello nuovo, ancora impacchettato, che i suoi due figli gli hanno appena regalato, ma è ugualmente “bollentissimo“. Sono i parenti che vogliono far gli auguri, e poi amici, tanti amici, tutti quelli che ha conosciuto nella sua lunga carriera calcistica. C’è vento a Capergnanica, paesino con poco più di 300 anime nel cremasco. E’ il ritiro dorato di Dario Hubner (per tutti il bisonte di Muggia) dove l’ex calciatore di Cesena, Brescia, Piacenza e Mantova vive e festeggia felice i suoi 50 anni. Lui, il bomber eterno e mai sazio, capace di vincere il titolo di capocannoniere nelle tre diverse categorie, gonfiando le reti dalla C alla A; lui, il più classico dei centravanti dal fisico solido, inarrestabile se lanciato in progressione e capace di puntare la porta con il suo grande fiuto del gol; lui, «il più grande calciatore dell’Italia senza grappa e sigarette», come simpaticamente lo definì l’ex presidente del Brescia, Gino Corioni. Ha appeso le scarpette al chiodo a 44 anni dopo aver girato una decina di squadre, ora pizzetto e ricciolini sono bianchi, ma chiacchiera volentieri.

Tanto per cominciare auguri signor Hubner. Come festeggia il mezzo secolo di vita?

«In famiglia, con mia moglie e i miei due figli. E poi mi fa piacere ricevere tante telefonate, vuol dire che in 30 anni di calcio ci sono state belle amicizie. Non ci sono auguri più graditi di altri, farei torto a qualcuno».

A cinquant’anni ha deciso cosa fare da grande?

«Direi di sì. Sono passato dall’altra parte della barricata, sto facendo il master a Coverciano per fare l’allenatore di prima categoria. Due volte alla settimana sono a Perugia, un’esperienza positiva perché ho ancora tanta voglia di imparare. Ora sono migliorarto nella visione tattica delle partite, mi accontenterei anche di fare il vice di qualche grande allenatore»

Del resto in panchina c’è già stato, guidando giovani speranze lombarde...

«Vero, ho allenato gli juniores del Ciliverghe, avevo una “rosa“ di 22-23 calciatori. Ma quelli che avevano davvero “fame“ erano 7-8, gli altri facevano fatica a migliorare. Devo dire che i ragazzi di oggi sono ben abituati, basta vedere con quale facilità si approda in Nazionale... ci vanno anche quelli della serie B, mentre ai miei tempi...»

Capisco dove vuol arrivare: in una splendida carriera il suo rimpianto è l’azzurro...

«Esatto. Non dico che sarei voluto andare ai Mondiali, ma almeno una partita, anche amichevole, nell’anno in cui vinsi la classifica dei cannonieri in A me la sarei meritata. E invece il Trap m’ignorò. Però di una cosa vado fiero: tutto ciò che ho ottenuto me lo sono conquistato da solo, nessuno mi ha regalato niente. Ho scalato le categorie facendo gol in tutte le serie e in tutti i modi. Ma non li ho contati».

Quello più strano?

«A Verona. Giocavo col Fano, dove c’è una tifoseria che ancora mi adora. Mi tirarono un pallone sui testicoli, finì nell’angolino...»

Passo indietro: a 50 anni tornano in mente i ricordi dell’infanzia...»

«Vero. Iniziai a giocare a calcio come tutti i bambini, nel piazzale di casa, all’oratorio e per strada. Poi a 14 anni decisi di andare a lavorare: non andavo male a scuola ma all’epoca trovare un impiego non era difficile come adesso e così cominciai una volta presa la licenza media: alle sette del mattino ero in fabbrica a fare il fabbro. Nel frattempo giocavo nel settore giovanile di una squadra di prima categoria e mi allenavo al pomeriggio. Il mio ingaggio? Un panino e una bibita al bar dopo la partita».

Allora si fa bene a definirla calciatore-operaio. Ma dopo tanta gavetta, ad un certo punto le si aprì davanti il palcoscenico della serie A...

«La partita che rigiocherei. Era il 31 agosto del 1997, il mio debutto col Brescia. Tutti attendevano Ronaldo, ma all’esordio segnai io. Poi ci pensò Recoba con una doppietta a rovinarmi la festa. Però fu una giornata da favola. Per uno come me abituato a giocare davanti a 15mila persone al massimo fu un’emozione bellissima trovarsi in uno stadio fantastico come San Siro davanti a 84 mila tifosi. Resta uno dei momenti più belli della mia vita, non lo scorderò mai».

Chi può essere l’Hubner di oggi?

«Detto che da “nordico“ (il nonno aveva origini tedesche) il mio modello era Rummenigge, oggi mi rivedo in Belotti. E’ fra i pochi giovani che ha voglia di sfondare, con la giusta mentalità. Combatte, parla poco, non pensa ai social e fa gol. Diventerà fra i migliori al mondo»

Ma è vero che lei fumava e beveva anche la grappa, tutto di nascosto?

«Beh, la sigaretta è un vizietto... ancora oggi il mio pacchettino lo faccio, ma pure durante le partite fra il primo e secondo tempo ci stava, perché facevo gol. Grappa e birra me le concedo, ma la mia è sempre stata una vita da atleta».

A Brescia giocò con tale Baggio...

«Era la stagione 2000-2001, ma Roberto non era più al top e soffriva di acciacchi fisici. Pur facendo la differenza, non era certo il campione che ricordavo. Chi invece mi impressionò veramente fu Pirlo, fenomenale già a 20 anni»..

La stagione successiva a Piacenza lei vinse la classifica cannonieri..

«Un anno stupendo. Grazie a Novellino e ai miei compagni avevo una squadra disegnata su misura. Sfruttavamo al cento per cento il contropiede e avevo tanti palloni da buttare dentro».

E perché non ha mai giocato in una grande?

«Sono arrivato tardi nel grande calcio. Nel 2002 Ancelotti mi portò in tournèe, avrei fatto la terza punta del Milan, ma il Piacenza non mi lasciò. E nel 1994 sarei arrivato all’Inter se solo Delvecchio avesse detto sì al Cesena...»