Quella grande nostalgia per le antiche certezze

“Kerestetìl”. Bizzarra parola, a leggerla così. Campeggia su una copertina rosso lacca, tutt’attorno a una foto di William Klein del 1952

Milano, 30 luglio 2017 - “Kerestetìl. Bizzarra parola, a leggerla così. Campeggia su una copertina rosso lacca, tutt’attorno a una foto di William Klein del 1952, con una donna elegantissima tra sculture espressioniste in bianco e nero. Ma a dirla, “Kerestetíl”, fa tutto un altro effetto. Rimanda a una struggente canzone di Charles Trenet, “Que reste-t-il de nos amours?”. E si capisce perché Irene Bignardi l’ha scelta come titolo del suo libro, edito da Astoria, per tenere insieme ricordi, esperienze, sentimenti, persone che segnano la vita. La forma è il romanzo. La sostanza, un “piccolo catalogo” di storie vissute, ascoltate, viste accadere da vicino. Lungo il corso della seconda metà del Novecento. Milano, sullo sfondo. Bambine che diventano donne. L’innocenza perduta. La ruvidità della vita. Che comunque scorre, in parole ben scelte per un racconto denso di sapienti suggestioni. Il narratore “non è onnisciente”. Le vite degli altri vanno avanti, autonome. E nella fatica e nel dolore del diventare adulti, talvolta non vince il cinismo figlio dei sogni infranti. “I buoni sono fragili”, dice Giorgio, regista di successo, alla giovane Carla, regalandole una copia di “Lord Jim” di Conrad. La bellezza di Carla non si spreca. L’amore, talvolta, è saper rinunciare e restare possibilità non colta, sogno.

Il gioco dell’Amarcord ha un sapore amarognolo. E ironico. Come rivela Livia Aymonino in “La lunga notte di Adele in cucina”, Giunti. Memoria di cose accadute, cariche di fantasie e suggestioni. Come fosse un romanzo. I sapori del cibo da preparare si mescolano ai ricordi. E dicono che la vita non hai mai una ricetta esatta e buona per tutti. Esperienze, piuttosto. Generose e sapide. Famiglia d’aristocrazia intellettuale di sinistra. Abitudini e consumi benestanti degli anni Sessanta, con i marchi e le pubblicità di Carosello. Via vai tra Milano, Roma, New York e Londra. I libri e le canzoni. Le ansie libertarie dei Settanta e la violenza del terrorismo. Il cinema e la Tv. Le famiglie “allargate”. E la politica. Tutto affidato alla scrittura di donna, fantasiosa e generosa, che nel dettaglio d’un abito, un gesto, una parola, un ingrediente di cucina, sa rivelare sorprendentemente un mondo intero. Le famiglie, già. Luoghi taglienti dell’anima, amore e conflitti. Se ne fa ancora una volta brillante interprete Stefano Jacini in “L’invidia degli dei”, Bompiani. Sempre Milano, anni Trenta. Le rivalità di due famiglie dell’aristocrazia lombarda, per soldi e primati nelle collezioni d’arte. Palazzi severi e passioni clandestine. Un omicidio per gelosia. Un rubino scomparso che diventa lucido e spietato “io narrante”. Il civettare con il fascismo e poi ritrarsene, pur apprezzando D’Annunzio. Nobiltà distratta che non intravvede la guerra e borghesia industriale che fa buoni affari. Privilegi. Ma non esibiti troppo. L’eleganza raccontata da Jacini ha, nonostante tutto, un lucido senso della misura.