Remota o contemporanea, la guerra è ferita aperta

Scrivere di guerra, tra storia e letteratura. Dei suoi miti e degli orrori

Milano, 6 agosto 2017 - Scrivere di guerra, tra storia e letteratura. Dei suoi miti e degli orrori. Lo fa con competenza e grande qualità di scrittura Sergio Valzania, uomo di Tv per mestiere e storico per passione, in “Sparta e Atene - Il racconto di una guerra”, Sellerio. È “la guerra del Peloponneso”, quella narrata da Tucidide, un conflitto lungo e feroce che continua ad avere toni d’attualità. Perché è uno scontro tra diversi stili di vita e di potere, Atene “democratica” e Sparta aristocratica oligarchia, tra funzioni economiche differenti, tra opposte concezioni del futuro: il culto di bellezza e filosofia contro la severa frugalità che rifugge dai confronti di idee. Lotta per l’egemonia, che segna anche il tempo a venire. Vince l’Atene di Alcibiade, generale abile e vanitoso (e dei filosofi, dei drammaturghi, degli scienziati e dei poeti), perde il totalitarismo spartano, ancorché eroico, perché poco aperto alla modernità. Sullo sfondo, resta la minaccia persiana… 

La storia, è vero, è sempre storia contemporanea, come ha insegnato Croce. Riparlare di quella Grecia, in cui affondano le radici dell’identità europea, significa ancora parlare di noi. Hanno sempre avuto una certa pretesa d’eleganza, gli abbigliamenti guerrieri. Le fulgide e terribili armature degli eroi omerici. Le spade lucenti. Le bardature. Sino all’estenuata pompa sfoggiata in battaglia dal Cinquecento in poi. Ne scrive Stefano Malatesta in “La vanità della cavalleria”, Neri Pozza, con esemplare forza di racconto. Gli ussari con i loro pennacchi, le giubbe bianche austriache, i copricapi preziosi (il tricorno con spilla di diamanti e smeraldi del prussiano Friedrich von Seydlitz). E le cariche. Belle da vedere e raccontare. Eroiche. Anche quando inutili, come quella della cavalleria inglese nel 1854 contro i cannoni russi a Balaklava, nella guerra di Crimea.

Le armi da strage di massa dei conflitti del Novecento mettono da canto la cavalleria. Il sangue delle ferite, la polvere e il fango dei campi di battaglia hanno la meglio su colori, bandiere, tessuti raffinati. È uno strazio, la guerra. Non è elegante, la morte. Atroce, piuttosto. Come confermano le storie de “I naufraghi del Don”, definizione che Giulio Milani, autore brillante di “reportage narrativi”, dà “agli italiani sul fronte russo 1942-1943”, buon libro pubblicato da Laterza. Racconti personali dei soldati (parecchi originali) si intrecciano ai documenti storici. E descrivono il disastro dell’Armir, l’armata italiana in Russia: 200mila militari partiti, metà appena tornati. Incompetenza e inefficienza del governo fascista e dei comandi militari. Ostilità tedesca. Ed eroismo italiano, sino alla disperata battaglia di Nikolaevka che nel gennaio ‘43 consente alle truppe stremate d’aprirsi un varco per tornare a casa. Epopea di bravi soldati. E dolore di quanti restano, abbandonati nel gelo e poi prigionieri. Una grande tragedia italiana.