Valtellina, l’abbandono trent’anni dopo: le condotte deturpano ancora i boschi

Drenarono milioni di metri cubi d’acqua. Dimenticate sui monti

Un'immagine dell'alluvione del 1987 (National Press)

Un'immagine dell'alluvione del 1987 (National Press)

Sondrio, 22 luglio 2017 - Ferite ancora aperte. Trent’anni dopo la tragica alluvione della Valtellina, la traccia del disastro non è solo incisa sui cuori di chi l’ha vissuta, ma anche sul volto delle montagne sconvolte dalle frane. Ghiaioni, detriti sui quali il tempo e la natura stanno riportando la vegetazione, per sanare una piaga nella quale, come la garza dimenticata da un chirurgo distratto, spiccano ancora i resti delle opere che servirono a liberare i versanti dallo smottamento. Val Pola, 2017: vasti boschi in altitudine, aceri temerari ricresciuti sui pendii lacerati, prati di rododendri a coprire rocce e terra.

E, nel mezzo, a ingombrare un intero versante i ciclopici tubi usati in quei mesi, lontani e concitati, per drenare l’acqua ed evitare disastri ancora peggiori. Sono ancora tutti lì. Accatastati, dimenticati e inamovibili. Proprio laddove la natura, negli anni, ha contribuito a ripopolare questo suggestivo angolo di Valtellina con la sua tipica vegetazione ancora si incontrano centinaia e centinaia di metri di condutture in plastica, arrivate dal cielo con un non indifferente sforzo della Protezione civile. A spiegare l’anomala, è il primo cittadino di Valdisotto, l’area più colpita dalla tragedia di trent’anni fa, dove la visita del capo dello Stato Sergio Mattarella, questa settimana, ha contribuito a riportare l’attenzione su quei fatti, apparentemente lontani, ma capaci di suscitare angoscie ancor oggi, se è vero che di franare il terreno in valle non ha mai smesso, come dimostrano anche le drammatiche immagini dello smottamento al Passo del Gallo, a Livigno, con gli automobilisti salvi per miracolo.

I tubi, inutili, adagiati come un lungo serpente chiaro nel prato, sono lì e ci staranno probabilmente ancora a lungo. Merito della tipica vicenda di burocrazia all’italiana, frutto di un intricato rimpallo di competenze: che siano terremoti, esondazioni o crolli, in Italia non si fa eccezione, perché le emergenze durano decenni. Il sindaco Alessandro Pedrini si schermisce e racconta di non poterci fare molto: «Non è facile stabilire a chi competa lo smaltimento dei materiali che ancora oggi giacciono nei nostri boschi: all’epoca dei fatti i soccorsi furono coordinati dalla Protezione Civile, cui già in passato ci siamo rivolti, anche a livello nazionale, per cercare di trovare un’adeguata soluzione. La sola amministrazione comunale chiaramente non è in grado di sostenere l’ingente spesa prevista per il recupero dei tubi in elicottero e per il successivo e necessario trasporto in discarica», chiarisce. «Siamo però fiduciosi che già nei prossimi mesi, compatibilmente con gli altri impegni assunti dalla nuova giunta, riusciremo a formulare un piano di intervento congiunto con Regione Lombardia e Protezione Civile». Fuori dal linguaggio burocratico, gli escursionistri ignari che risalgono la valle, con ogni probabilità si chiederanno ancora per diverso tempo cosa sono quelle grandi condotte e a cosa siano servite.