Sondrio, trent'anni dopo l'alluvione: paesi nel fango tra silenzio e morte

Sono le 17.04 del 18 luglio 1987, un sabato. Una massa di acqua e fango, un unico, enorme grumo, s’incanala nel greto di un torrente e prosegue la sua discesa

Alluvione in Valtellina nel 1987

Alluvione in Valtellina nel 1987

Tartano, 16 luglio 2017 - Piove, piove a dirotto, in quel mese di luglio del 1987. Tartano è il nome di un torrente, di un vallata, di un paese annidato a 1.200 metri di altezza. La pioggia è insistente, tenace. Un territorio fradicio si arrende. A quota 1.600 metri sopra Tartano si stacca una frana. Discende, raccoglie, fagocita. Sono le 17.04 del 18 luglio, un sabato. Una massa di acqua e fango, un unico, enorme grumo, s’incanala nel greto di un torrente e prosegue la sua discesa. In un alpeggio vengono travolte due persone. La massa si abbatte sul condominio “La Quiete”, lo trapassa, lo perfora, dividendolo come le metà di una mela. Più sotto c’è gente, tanta gente. Sono gli ospiti dell’hotel “La Gran Baita”. Se ne stanno distribuiti fra il pergolato e la veranda, a osservare, come ipnotizzati, quella massa. Il condomino che si frappone fra l’albergo e la montagna impedisce di vedere che direzione prenderà. La frana salta la strada, piomba sulla “Gran Baita”. Le dieci persone sulla veranda muoiono stritolare in una corazza di fango. Altre nove, sul porticato, vengono scagliate lontane dallo spostamento d’aria. Non le ritroveranno mai più. Tragica, catastrofica, sinistramente epica, l’alluvione della Valtellina inizia allora, con i 21 morti di Tartano. Alla fine dell’emergenza i morti saranno 53, paesi cancellati, 341 le abitazioni distrutte, 1.545 quelle danneggiate, circa 25mila gli sfollati, fra quelli che hanno perduto la casa e quelli costretti a lasciarla anche soltantto per pochi giorni, 4mila miliardi di lire i danni.

Celeste Gusmeroli abitava nel condominio “La Quiete”. La sua vita, quelle dei familiari, quelle dei condomini, si sono giocate e salvate nello scorrere di un minuto. Non di più. "Ero nel mio negozio di frutta a Morbegno. Alle due e mezzo del pomeriggio, mia sorella mi ha detto di andare a Tartano, dove c’erano mia moglie, mia suocera, il mio nipotino di due anni. Salivo e guardavo la montagna: sembrava che scendessero delle candele d’acqua. In casa stavano giocando a carte. ‘Guardate, è meglio andare via. Quest’acqua è esagerata’. Ho chiamato tutti i condomini, erano una ventina, sette o otto solo in casa dei Volo, il capofamiglia si è caricato il padre sulle spalle. E tutti a chiedermi: ‘Ma perché dobbiamo andare via’. E io a rispondere a tutti: ‘Non lo so, ma andiamo’. Siamo usciti. Ci siamo fermati a una stalla vicino all’albergo. Eravamo in ventidue. Siamo arrivati alla località Rivina. C’era una casa con una cappelletta nel giardino, non si vedevano più le luci. Mi sono voltato a guardare il condominio. Ne ho visti due. La frana lo aveva spaccato in due". E oggi, trent’anni dopo? "Un po’ si pensa, un po’ si dimentica. Ci siamo salvati per quel minuto. Abbiamo evitato la frana per un minuto. È giusto ricordare, essere attenti, soprattutto non ripetere gli errori. E poi la vita va avanti".

Il 28 luglio è un martedì. Alle 7.23 una frana si stacca dal Pizzo Coppetto, una montagna a 3.066 d’altezza (anche se per la precisione storica sarebbe più corretto parlare del Monte Zandila). Quaranta milioni di detriti rotolano verso valle a una velocità di 360 chilometri all’ora. Dura mezzo minuto. La massa immane risale per più di 300 metri il versante opposto della montagna, provocando una immensa onda d’urto. S’infila sotto lo spezzone di roccia di San Bartolomeo, s’incastra in basso, nella strozzatura della valle, spazza via ogni cosa, seppellisce il ponte del Diavolo, risale il versante opposto fino ad Aquilone. Vengono investiti il paese di Sant’Antonio Morignone con le contrade Morignone, Tirindrè, Piazza. Sant’Antonio Morignone, borgo di agricoltori, operai della Levissima, frontalieri, è stato evacuato prima di essere sommerso e cancellato, ma nella piana di Sant’Antonio vengono travolti sette operai che stanno smobilitando. Ad Aquilone la gente è nelle case, i bambini si stanno risvegliando. È una strage. Muoiono in ventinove, risucchiati e portati via dallo spostamento d’aria. I detriti bloccano il corso dell’Adda. Si crea un lago naturale. È il lago della Val Pola, legato al terrore di un nuovo Vajont perché la montagna continua a cedere e franare. Sarà lentamente, progressivamente svuotato per tutto il mese di agosto. Nelle case degli italiani entra una parola che pochi conoscono: tracimazione.

Luigi Bossi, gran cuore di milanesone, una vita passata a rappezzare i danni delle catastrofi, all’epoca era responsabile del servizio di sicurezza della divisione elettricità di Aem: "Sono stato in Valtellina dal 19 luglio al mese di ottobre, con una pausa il 25 settembre per il mio compleanno. Facevamo base a Grosio. La mattina del 28 luglio ci siamo accorti che era successo qualcosa perché è mancata la corrente elettrica. Ci siamo alzati in elicottero con l’ingegner Pagliarini. Ho due ricordi. I pini erano diventati color marrone. Un raggio di sole illuminava la chiesetta di San Bartolomeo: era intatta, la frana l’aveva aggirata. Al ritorno ho guardato l’orologio: erano le 8.20. Avevamo sorvolato la frana della Val Pola".

L'indennizzo per le abitazioni non viene mai rivalutato. Dei 410 sfollati di Sant’Antonio rinunciano in tanti. Un miliardo e 200 milioni di vecchie lire è l’indennizzo globale per i valtellinesi che avevano perduto un familiare. Risarcimenti sparagnini per famiglie nel dolore. La tragedia di Aquilone ha privato Stefano Confortola dei genitori. È stato vicesindaco del comune di Valdisotto. "Mi sono salvato perché sono finito sotto un trattore e sono stato agganciato da qualcosa. Così il risucchio non mi ha portato va. Mio fratello era in montagna, alla chiesa di San Bartolomeo, a monitorare. È stato ferito alla testa da un sasso. Abbiamo avuto 50 milioni. Cinquanta milioni per i nostri genitori quando, in certi casi, si è speso tanto per grandi opere che poi sono state distrutte e rifatte. Come i tre gradoni collocati alla base della frana, dove corre il fiume. Erano così alti che li hanno rimossi. Un lavoro ciclopico". Quanto vale la vita di un figlio? L’ultima visione di Emilia Sambrizzi è quella dei suoi tre ragazzi che tentano di fuggire. Poi il buio. Marco aveva 23 anni, Raffaella 20, Lorenzo 11. Emilia e il marito Mario Bonetti hanno ricevuto 50 milioni: meno di 17 milioni per ognuno dei figli perduti.