Paderno Dugnano, 27 marzo 2014 - «Esigenze cautelari affievolite» per il vice direttore dell’ufficio postale di Paderno. Tradotto, Walter La Coce (accusato insieme al direttore Vincenzo Bosco di concorso nell’esercizio abusivo dell’attività finanziaria e corruzione) da sabato non è più agli arresti domiciliari.

Resta l’obbligo di dimora per evitare che inquinino le prove. L’ha deciso il Riesame, che ha accolto l’istanza presentata dall’avvocato. Le indagini, i confronti incrociati, i rilievi degli inquirenti, però, vanno avanti. Sono da approfondire il legame tra le attività della banca delle cosche, sgominata a Seveso ai primi di marzo nell’operazione Tibet (quaranta persone coinvolte, in carcere o ai domiciliari) e le operazioni finanziare autorizzate tra ottobre 2011 e maggio 2013 dai due dirigenti di Poste Italiane, che sono anche stati sospesi dal servizio.

La Coce conta di poter rientrare presto in servizio: da pochi giorni è tornato a respirare, ricevendo «la solidarietà di tantissime persone, colleghi, concittadini». E racconta: «Mi accusano di aver fatto prelievi superiori alla disponibilità dei conti correnti, ma questo non è vero né possibile». Certo, quei visi li conosceva, quegli imprenditori così pieni di denaro contante gli avevano ispirato qualche dubbio, «ma tecnicamente tutto quello che facevano era legittimo».

La ricostruzione dei pm Giuseppe D’Amico e Ilda Boccassini racconta di rapporti opachi, prelievi e versamenti disinvolti, buste bianche, «panettoni» e favori. Secondo l’accusa, il presunto capoclan Giuseppe «Pino» Pensabene e i suoi accoliti in Brianza gestivano il riciclaggio dei proventi delle attività illecite attraverso aziende di copertura che effettuavano versamenti e prelievi importanti proprio in uffici postali più o meno compiacenti (a Paderno ma anche a Desio, Cinisello, Rho, Cesano Maderno, Seveso, Seregno).

Botte da centomila euro. Sfruttavano le falle del sistema antiriciclaggio («in tutte le Poste d’Italia hanno un unico centro e ne arrivano di segnalazioni, di cose. Quindi è molto ma molto difficile che ci beccano proprio a noi», ragionava Pensabene nel febbraio 2012) ma, sempre secondo l’accusa, anche oliando la macchina.

Nel caso padernese, soldi (da 400 a mille euro) o piccole regalìe per il disturbo. Nelle intercettazioni emerge come Bosco e La Coce usassero chiamare gli uomini di Pensabene, ufficialmente titolari di attività edili, per avvisarli dell’arrivo del denaro contante: «Ma tu oggi non passi? Perché c’ho un po’ di roba», cioè di soldi, chiedeva La Coce a Nuccio Bovini (anche lui arrestato).

«È prassi chiamare i clienti degli sportelli Poste Imprese perché non abbiamo mai tutto quel contante in cassa, bisogna ordinarlo», si difende La Coce dalla sua casa di Nova Milanese. I pm lo accusano di aver ricevuto 400 euro e un lavoro edile da una delle aziende collegate al clan come ringraziamento per aver chiuso un occhio: «Col mio avvocato proverò che non è così. Mi hanno descritto come un banchiere della ’ndrangheta, mi hanno sconvolto la vita».
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