Paderno Dugnano, 13 gennaio 2012 - «Il sogno di tornare in Etiopia non era un segreto, Habtamu ce ne parlava quotidianamente. E noi abbiamo sempre detto che, una volta cresciuto, sarebbe stato libero di fare tutte le sue scelte: tornare in Africa, andare a lavorare a New York. Avremmo appoggiato i suoi sogni». Ma mamma Giulia e papà Marco non avrebbero mai immaginato che quell’intraprendente ragazzino di 13 anni si mettesse in marcia, da solo, affrontando mille peripezie. Ora che l’incubo è finito, la famiglia Scacchi al gran completo è tornata a Paderno. Tra pochi giorni Habtamu tornerà a scuola.

Intanto, lontano dai riflettori, i genitori stanno ricostruendo quanto successo, passo dopo passo. Nessun segnale, prima dell’allontanamento. Habtamu aveva chiamato il papà per sentire a che ora fosse la merenda. «È uscito intorno alle 17 per fare la solita scampagnata. Dopo un’oretta, non vedendolo, ho mandato il primo messaggino. Quando ha iniziato a diventare buio ho iniziato a preoccuparmi. Il telefono era spento». Mille pensieri e preoccupazioni. Poi la telefonata ai carabinieri. «In pochi minuti è arrivata la prima Volante, poi i volontari e il Soccorso alpino». Fino alle 3 di notte hanno setacciato il bosco dietro casa. Allora la pista Etiopia era ancora così lontana.

«La terza notte senza notizie ci è sembrato di morire — ricorda papà Marco — L’idea che fosse sparito nel nulla per sempre era angosciante. Una sofferenza inimmaginabile». A dare speranza ai genitori era anche il piccolo Asmamaw, il fratellino di 11 anni, «che ha giocato un ruolo determinate nelle indagini. In fin dei conti — spiegano — è la persona che conosce più di tutti Habtamu. Ci dava consigli. “Mamma, sai che Hafti è capace di tutto. Sa camminare tantissimo, nuota bene» e noi mandavamo i messaggini al maresciallo, indicando le sue piste». Solo quando la cella del telefono è stata agganciata a Salerno hanno capito: Habtamu stava tornano in Etiopia. «Aveva escluso l’idea di prendere mezzi di trasporto senza biglietti — continuano i genitori — E quando ha finito le mancette, ha iniziato a camminare. Dicono che i maratoneti più grandi sono Etiopi? Beh, ci crediamo. Ma avremmo preferito crederci sulla parola». In tutto il viaggio una grande consapevolezza del pericolo. «Non si è mai fatto dare un passaggio da nessuno. Non si fidava. Ci ha stupito la sua capacità organizzativa. Ha messo in pratica tutti gli insegnamenti dello scoutismo per sopravvivere in queste quattro notti».

Poi la svolta, il ripensamento e il ritorno in una famiglia non solo solida, ma che ha sempre creduto nelle adozioni: Giulia e Marco sono tra i fondatori dell’associazione «Le radici e le ali», tengono continui corsi di formazioni alle famiglie che intraprendono questa scelta di vita. E non smettono mai di interrogarsi. «Nei ragazzi adottati c’è spesso il desiderio di tornare all’origine. Il consiglio che adesso vogliamo dare è di non aver paura di parlarne e di affidarsi ad altri, un punto di vista esterno può aiutare a leggere meglio la situazione, a capire meglio i nostri ragazzi così speciali».
 

simona.ballatore@ilgiorno.net