Provvisionato al Giorno: "Ero finito in una storia più grande di me. Sono vivo per caso"

Nelle sua prima intervista, Provvisionato racconta in esclusiva al Giorno l’affaire Mauritania

Cristian finalmente a casa con Kuby, il suo golden retriever

Cristian finalmente a casa con Kuby, il suo golden retriever

Cornaredo (Milano), 16 maggio 2017 - A nemmeno 48 ore  dal suo arrivo in Italia, domenica era già al Meazza, per ringraziare i tifosi dell’Inter, fin dall’inizio con lui. «Ma ero nel panico, in quel caos di gente, dopo quasi due anni in cella da solo». E la notte, ancora, non dorme. Nonostante le lenzuola pulite, Alessandra al fianco e il fido Kuby ai piedi del letto. Cristian Provvisionato, 43 anni, è tornato nella casa di Cornaredo, dove lo aspettavano l’amore, il golden retriever, quattro pesci nell’acquario e le tartarughe sul balconcino.

«Troppe emozioni. È una storia più grande di me - dice scuotendo la testa -. Una storia piena di melma. Come tutte le storie di cyber spionaggio. La verità è talmente complessa che non la voglio neanche sapere. Per fortuna c’è al lavoro il miglior pool di magistrati che abbiamo in Italia». Sulla sua vicenda, indaga infatti il pm Alberto Nobili, con la delega all’antiterrorismo. E non a caso. «Ci sono di mezzo i servizi segreti e io sono vivo perché servivo in vita. Se no avrebbero trovato il mio cadavere nel deserto, come Giulio Regeni». Ma su questo fronte, Cristian, assistito dall'avvocato fabio Schembri, è tranquillo: So bene che la magistratura sta andando avanti e che individuerà i responsabili di quella che è una truffa aggravata ai miei danni. Mi fido ciecamente».

Sul divano, accanto a una copia del “Piccolo principe”, Cristian ricorda le sequenze del suo dramma: «Il 13 agosto la chiamata: vai in Mauritania, 1.500 euro alla settimana, devi solo scortare un tecnico alla dimostrazione di un prodotto. Roba veloce, ho pensato, accetto». A chiamarlo una società milanese che collaborava con la Wolf intelligence, azienda indiana di software, che a suo volta aveva ceduto alla Mauritania 13 sistemi per infettare pc e computer di potenziali obiettivi.

«Il 16 atterro in Africa ma presto scopro che non c’è nessun meeting. Intanto ridanno il passaporto a un italiano, che può rientrare, ma sequestrano il mio. Di lì a due o tre giorni vado al consolato a chiedere lumi, ma nessuno sa niente. Da Milano mi chiedono di non dire niente e di non nominare la Wolf. Comincio ad avere una paura folle».

Il giorno dopo bussa alla sua porta Ahmed Ba, braccio destro del presidente, che gli chiede perché sia andato dal console. «Gli ho spiegato tutto, e non ci capivo più niente. E lui, testuale: “O ci ridanno i soldi indietro, o tu non rivedi più l’Italia”. In quel momento ho capito: ero un ostaggio». Da luglio, oltre un mese, la Mauritania attendeva il 13° item, che avrebbe fatto funzionare tutti gli altri. Ma, pur avendo pagato un milione e mezzo di euro, non era - e non sarebbe - mai arrivato.

Cristian ricorda con dolore: «Il 1° settembre sono entrati nel mio appartamento uomini dei servizi in borghese. Solo una frase: “Prendi la tua roba e seguici”. Poi hanno minacciato il custode di tacere. Ho pensato: adesso mi ammazzano e non saprò mai perché». Quattro mesi in una cella sporca, tra scarafaggi e turche impraticabili. Senza mai telefonare a casa. «Solo quando ho minacciato di rinunciare al cibo, il comandante, impietosito, mi ha passato il suo cellulare e ho chiamato mia madre, per dire che ero vivo. Sarebbe successo tre volte in un anno».

Alle 12.30, venerdì scorso, l’annuncio: “Sei libero”. E un quarto d’ora dopo il viceministro Amendola gli dà la mano. «Fai le valigie, che andiamo a casa». «Non so più come ringraziare lui, Alfano, i magistrati, voi e la mia famiglia, ero al settimo giorno di sciopero della fame e mi avete salvato». E adesso? Il futuro? «Niente sarà più come prima. Da due anni sono senza stipendio, mi cercherò un posto, forse nella sicurezza, ma non credo più in Italia. Magari andrò a vivere all’estero. Ma con Alessandra. Voglio che resti sempre accanto a me».

Poi la guarda e le sorride. Lo sguardo di lei dice che sa già tutto: «Ci sposiamo».