Bollate, il bandito pentito e “L’arte della rapina”

Vent’anni dentro e fuori dalle carceri, poi l'incontro con un professore che lo indirizza alla scrittura. Oggi Francesco Ghelardini si racconta: "Ora è il tempo della tranquillità"

Francesco Ghelardini con il suo libro

Francesco Ghelardini con il suo libro

Bollate (Milano), 23 luglio 2017 - Sognava di fare il pilota d’aereo ma con un padre contrabbandiere di sigarette e un’infanzia trascorsa nel quartiere Comasina capisce subito che la sua strada sarebbe stata un’altra. La prima rapina a 14 anni, "dopo una settimana al Beccaria, al processo mi danno il perdono giudiziario, io allora mi dico ‘si può fare’". Supermercati, uffici postali, banche, a 18 anni si trova in una cella di San Vittore con detenuti dal curriculum criminale di tutto rispetto. Vent’anni trascorsi in galera dei quali non va fiero, ma dai quali ha imparato molto. Oggi si sta costruendo una vita normale, fatta di quotidianità, lavoro onesto, giorni sereni con la sua famiglia. In questo tentativo di normalità ha esordito come scrittore pubblicando il libro “L’arte della rapina. Come svaligiare una banca senza tanti perché”, edito da Oaks. Lui è Francesco Ghelardini, 51 anni, ex rapinatore di banche. L’ultima condanna a 6 anni e 2 mesi l’aveva portato nel carcere di Bollate, da dicembre 2016 è in affido ai servizi sociali e vive con la sua compagnia e la figlia a Santo Stefano Ticino.

Come mai il libro?

"L’idea è nata dopo l’incontro con Luca Gallesi, un professore del liceo Manzoni di Milano che ho conosciuto in carcere dove lui era impegnato in un progetto con gli studenti. Ha letto alcuni testi che avevo scritto e mi ha riconosciuto di avere un’ottima arte della scrittura. Dopo l’ultimo arresto mi ha detto “adesso hai tanto tempo libero perché non scrivi un libro sulla tua storia?”".

Il libro è un manuale per aspiranti rapinatori?

"Assolutamente no. Come scrivo nella prefazione, nell’immaginario collettivo il rapinatore è un tipo losco, armato di pistole, che spara a caso. Invece un rapinatore “professionista” cerca sempre di organizzare bene il lavoro, dalla scelta dei complici a quella delle armi. Non lascia nulla al caso sapendo che comunque può sempre succedere qualcosa che non era stato ponderato e non vuole fare del male a nessuno".

Quindi cosa racconta?

"C’è un capitolo per esempio dedicato alle armi, quelle vere, quelle finte, i tanti modi di chiamare un’arma nei dialetti regionali. Racconto come avviene la ricerca degli obiettivi e dei complici, le aspettative, i diversi travestimenti che devono cambiare a secondo del luogo scelto".

È autobiografico?

"Sì, racconto la mia esperienza. Ci sono ricordi dell’infanzia, la mia vita da rapinatore e detenuto, gli errori sentimentali, alcuni aneddoti dei processi".

È stato anche contestato...

"In una serata di presentazione del libro c’era tra il pubblico un direttore di banca che ha preso moglie e figli e se n’è andato via. Un’altra persona ha alzato la mano per intervenire e mi ha detto che io ero compiaciuto. In realtà non è così, il pentimento è qualcosa di molto intimo e personale, c’è stato in me, anche se la gente non mi ha visto piangere".

Ha davvero appeso armi e travestimenti al chiodo?

"Non ci metterei la mano sul fuoco, dico solo che nella vita c’è un tempo per ogni cosa e oggi per me è il tempo della tranquillità, dell’armonia. So riconoscere i segnali che mi portano a deviare, sono più forte ma capace di chiedere aiuto. Sto pensando a un nuovo libro per raccontare i personaggi conosciuti in vent’anni di galera".