Arese (Milano), 31 marzo 2014 - Non tutti hanno voglia di raccontare. Di ricordare. Nei faldoni che stringono sotto braccio c’è la storia di un loro familiare morto per l’amianto respirato in fabbrica. Qualcuno nasconde gli occhi lucidi dietro un paio di occhiali da sole. Anche chi racconta lo fa con un nodo alla gola. «Nostro papà era orgoglioso di lavorare all’Alfa Romeo. Aveva iniziato al Portello di Milano, poi era stato trasferito ad Arese. Ci raccontava del suo lavoro in fabbrica con passione, non si era mai lamentato delle condizioni in cui si lavorava».

Raffaella e Maria Grazia Turconi, sono le figlie di Mario Turconi, morto il 4 novembre del 2000 per mesotelioma pleurico maligno. Sul libretto di lavoro di loro padre alla voce mansione c’era scritto “impiegato di terzo livello”, ma lui dietro alla scrivania e negli uffici non aveva mai fatto un giorno. O forse ne aveva fatti così pochi che neppure lui li ricordava.

E così aveva lavorato dal 1950 al 1969 al Portello e dal 1970 all’83 nello stabilimento aresino nel reparto controllo qualità. Il suo compito era quello di controllare, ogni giorno, migliaia di pezzi, batterie, filtri dell’olio e della benzina, pressiometri, faceva anche alcuni collaudi delle apparecchiature elettriche e dei quadri di comando. Senza adeguate protezioni maneggiava pezzi contenenti fibre d’amianto.

«Quando lo avevano trasferito ad Arese era contento perché si era avvicinato a casa — continuano le figlie — non aveva mai fatto un giorno di malattia, nè avuto problemi di salute, la malattia è arrivata dopo, quando ormai era in pensione». Tutto è scritto nei faldoni, ma prima ancora nella meomoria dei familiari, «me lo ricordo bene, come fosse ieri, eravamo in vacanza, era il giugno del 1999, papà aveva avuto un versamento pleurico», spiega Raffaella. Quello è stato l’inizio.

Nella storia della “malattia professionale” di Mario e degli altri operai che, come lui sono morti qualche anno dopo, ci sono accertamenti medici, biopsie, ricoveri ospedalieri, interventi chirurgici. Poche speranze. Tanto dolore. Rabbia. Poi la morte.

«Papà fu uno dei primi casi, poi abbiamo saputo di altre morti. Lui lo aveva capito da solo che la colpa di quella malattia era l’amianto respirato in Alfa Romeo ma noi abbiamo sempre cercato di proteggerlo. Ma non c’erano dubbi sull’origine di quel male, quando nei polmoni ti trovano un centimetro e mezzo di materiale bianco, di amianto, è logico che non lo hai respirato altrove, ma era quello che respiravi in fabbrica — continuano le figlie —. Solo qualche anno dopo ci hanno chiesto la documentazione medica e si è iniziato a parlare di responsabilità dei dirigenti della Fiat». In una relazione conclusiva sul “caso Mario Turconi” si legge «si ritiene che abbia subito esposizione ambientale all’amianto nel periodo lavorativo ad Arese».

A udienza preliminare finita qualcuno tace. Altri raccontano. Altri sfuggono gli sguardi. Ma tutti i familiari delle vittime chiedono giustizia, «io sono fiduciosa in questo processo non solo per mio padre e gli altri operai morti, non solo per il risarcimento dei danni, ma per quelli che ancora oggi lavorano in condizioni poco sicure, perché ci sia maggiore consapevolezza», conclude Raffaella.

Accanto a loro anche la vedova, che parla poco, ma scuote la testa e ricorda un solo dettaglio: «Mario andava in fabbrica anche con trentanove di febbre».
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