Arese, 4 maggio 2011 - «A quei tempi l’amianto era dappertutto. Sui tetti dei capannoni, nelle placche che montavamo sui motori, nelle protezioni dei freni e della frizione. Non si usavano i guanti. Per anni ho fatto l’operaio nel reparto abbigliamento e montaggio, spesso questi pezzi si dovevano tagliare a misura e così le particelle dell’amianto finivano nell’aria». È questo il ricordo di Vincenzo Lilliù, 62 anni, ex operaio dell’Alfa Romeo di Arese, uno dei primi delegati sindacali a parlare in fabbrica della pericolosità dell’amianto. Non si ricorda di colleghi «morti d’amianto», ma ricorda benissimo le condizioni in cui lavoravano.

All’indomani della decisione della Procura di Milano di aprire un’inchiesta su una trentina di decessi di operai dello stabilimento aresino, in quel che resta delle sedi sindacali sotto il Biscione si spolverano documenti ingialliti e snocciolano ricordi di operai e delegati. Il pm Maurizio Ascione vuole capire se gli ex dirigenti della fabbrica automobilistica fecero di tutto per limitare i danni causati dalle fibre killer. Il fascicolo contro ignoti ipotizza i reati di omicidio plurimo colposo, lesioni colpose e omissione dolosa di cautela.
 

«In quegli anni costruivamo circa cinquecento auto al giorno. C’erano cinque linee di fabbricazione e in questi processi c’erano molte componenti che contenevano anche amianto — spiega l’ex operaio —. Mi ricordo che nel 1987 ho fatto il primo esposto per denunciare la cosa e chiedere visite mediche agli operai della catena di montaggio». La Fiat mandò ad Arese alcuni responsabili della sicurezza. Vincenzo ricorda che uno dei responsabili Fiat afferrò una guarnizione "sotto accusa» e rivolgendosi al sindacalista disse: «Si può anche mangiare, non è nociva». «Io ero giovane, non accettai la provocazione, presi quel pezzo e glielo misi vicino alla bocca dicendogli di mangiarlo davvero», spiega lui. Anche Pierluigi Sostaro, ex meccanico, ricorda quando alla fine degli anni ’80 si iniziò a parlare di amianto nel capannone 28: «Avevamo capito che si trattava di una sostanza pericolosa da un dettaglio curioso — ricorda il delegato sindacale della Cub —. Avevamo una parte delle guarnizioni di freni e frizioni con il simbolo dell’amianto e altre senza. Sulle auto destinate al mercato americano dovevano montare le seconde, su quelle per il mercato italiano le prime».


Nel 1992 entrano in vigore le prime norme sulla cessione dell’impiego dell’amianto e la Fiat si adegua, eliminando tutti i pezzi dai magazzini. Restava però quello sui tetti dei capannoni. «Abbiamo fatto esposti all’Asl, venne messa una vernice protettiva che fungeva da capsula — conclude Sostaro —. Ma la vernice non fu messa all’interno. L’Asl impose alla Fiat di fare delle misurazione nei capannoni sulla presenza delle fibre d’amianto e dopo qualche mese ci informarono che i valori erano nella norma». Esposti e polemiche anche nel 2003-2004 quando vennero abbattuti i primi capannoni per fare spazio alle nuove aziende. «I nuovi proprietari delle aree accumulavano le lastre di eternit a terra senza protezione, facendo lavorare personale non specializzato — spiega Corrado Delle Donne, dei Cobas —. Abbiamo fatto una denuncia all’Asl: loro sono venuti a portare via tutte le lastre con gli elicotteri. Ma chissà che inquinamento c’è stato».