Omicidio di Somma Lombardo, scarcerata dopo un anno la moglie

Un soprammobile in testa e lui morì. Ma l'anziana resta indagata per omicidio involontario. E' caccia a due tunisini presunti complici R.V.

Antonino Faraci e Melina Aita

Antonino Faraci e Melina Aita

Somma Lombardo, 18 aprile 2015 - A casa dopo un anno di carcere. Nella villetta dove, fino al 12 aprile 2014, ha abitato con l’uomo che, almeno secondo gli investigatori, proprio lei ha ucciso. Melina Aita, la pensionata accusata di avere ucciso il marito Antonino Faraci, è stata scarcerata. Era nella casa circondariale di Monza dal 19 aprile scorso, giorno del suo arresto, avvenuto a una settimana esatta dall’uccisione del consorte.

Melina, quindi, farà ritorno nella villetta di via Briante 199 a Somma Lombardo, cittadina nelle vicinanze dell’aeroporto di Malpensa. L’anziana resta indagata con l’accusa di omicidio volontario: il gip del tribunale di Busto Arsizio Luca Labianca, ha disposto per lei l’obbligo di firma presso la caserma dei carabinieri sommesi e quello di dimora in città. La donna è stata liberata dopo che il giudice ha respinto la richiesta della pm Rosaria Stagnaro, che aveva proposto una proroga della misura cautelare. Secondo l’accusa, con Melina ancora in carcere, sarebbe stato più semplice proseguire nella missione alla ricerca dei due tunisini che, a detta degli investigatori, avrebbero aiutato la donna a massacrare il marito, colpito alla testa con un soprammobile dopo alcuni fendenti assestati con un coltello. Il gip, evidentemente, non ha ritenuto che la necessità di mettere il sale sulla coda ai due stranieri, ancora latitanti, cozzasse con la possibilità di permettere a Melina, che si è sempre detta innocente, di tornare a casa. 

La vicenda resta aperta. Una svolta potrebbe arrivare con l’arresto dei presunti complici, colpiti da un mandato d’arresto europeo ma tuttora irreperibili. Se gli investigatori riuscissero a rintracciarli, si potrebbe poi effettuare il test del Dna sul materiale biologico recuperato nella villetta che fu teatro dell’omicidio, le tracce che vennero scoperte sul giubbotto sequestrato nell’abitazione di uno dei due extracomunitari - corrispondenti per codice genetico a quelle presenti nella casa di via Briante - e, come terzo elemento, un capello dei due uomini. 

Gli avvocati difensori della signora, intanto, affinano la loro strategia per l’eventuale processo. Hanno già annunciato di voler chiedere il dibattimento in Corte d’Assise per dimostrare l’innocenza della 66enne sotto accusa, da lei sempre protestata. Al fianco di Melina si sono schierati, in passato, i figli avuti con la vittima. Due mesi fa Vito, che risiede negli Stati Uniti, rivolse un appello a favore della madre. «Dopo dieci mesi - disse allora l’uomo - mamma è ancora in carcere, mentre gli assassini di papà sono ancora liberi. Mia madre non c’entra nulla con l’omicidio».