Giovedì 25 Aprile 2024

La verità di Mori: "I servizi segreti? Un carrozzone"

L'ex generale e capo del Sisde: la politica non sa a cosa servono

L’ex generale Mario Mori e il colonnello Luigi Verde, comandante dei CC di Sondrio (De Giorgi)

L’ex generale Mario Mori e il colonnello Luigi Verde, comandante dei CC di Sondrio (De Giorgi)

Roma, 15 gennaio 2016 - «I SERVIZI in Italia sono poco più che un carrozzone burocratico che ha paura di agire». La franchezza non manca a Mario Mori, generale e prefetto, già direttore del Ros Carabinieri e, dal 2001 al 2006, del Sisde. Mori ha appena pubblicato un ponderoso libro (Servizi e segreti, 247 pagine, ed. Grisk) che lui, con vezzo, chiama «un Bignami dell’intelligence». Un libro d’inquadramento, che sollecita a ulteriori letture. E con il quale il generale si toglie qualche sassolino dalle scarpe.

Generale Mori, lei dice: in Italia il comparto sicurezza è considerato marginale, e in quanto tale non ha molti mezzi.

«Non lo affermo io, lo dice la nostra storia. I servizi segreti, in Italia, sono sempre stati tenuti a margine. Il politico italiano, l’uomo di cultura, l’imprenditore, non hanno la cognizione di cosa è e a cosa serve un servizio di sicurezza. Siamo ancora fermi alle veline sulle corna di qualche avversario. Invece, i servizi sono una cosa seria e consentono a uno Stato o a un Ente di conoscere la realtà in cui si muove, e a scegliere su basi concrete di conoscenza. Questo, glielo assicuro, il politico italiano non l’ha proprio capito, salvo qualche eccezione. Il presidente Cossiga ad esempio, o attualmente il sottosegretario Minniti».

Ma gli 007 italiani funzionano? Lei scrive che «prassi e norme li hanno trasformati in poco più che un carrozzone burocratico con parvenze operative». Una critica pesante.

«È la realtà. Delle leggi spesso inadeguate, delle polemiche continue sull’impiego dei servizi, delle crisi che hanno coinvolto i servizi perché la scelta dei loro dirigenti fatta dal mondo politico non è sempre stata all’altezza, ha fatto sì che veramente si creasse un carrozzone che ha paura di agire. Tenendoli in queste condizioni, verrebbe da dire che è meglio chiuderli. Ma se per assurdo lo facessimo, deve esser chiaro che ci escluderemmo dal mondo che conta».

E se invece decidessimo di adeguarli alle necessità?

«Non è tanto un problema di fondi, potrebbero anche andar bene i soldi che ci sono. Dovrebbe cambiare l’approccio, che dovrebbe essere più sistemico e puntare alla creazione di servizi che funzionano».

Concretamente, che vuol dire?

«Come prima cosa servirebbe la creazione di una scuola di alta formazione. Non può essere che ogni volta che cambia il governo cambia il direttore del servizio. Quando io ero direttore del Sisde, il mio omologo dell’Mi5 inglese era la signora Eliza Manninger che era entrata appena laureata e ha fatto tutta la carriera nel Mi5. E lei aveva l’orgoglio di dire: io non sono il capo del servizio del governo laburista o conservatore, io sono il direttore del servizio segreto di sua Maestà britannica. Che è una grandissima differenza. Questo è l’esempio. Il che significa, per l’Italia, che non si devono prendere direttori tra i gran commis dello Stato, che sono eccellenti prefetti, eccellenti generali ma non hanno mai fatto l’attività del servizio e quindi non capiscono quello che serve, ma che bisogna formarli. Loro e naturalmente tutti gli altri funzionari e operatori».

Basta una scuola di formazione?

«No, servono anche direttive precise. E sinergie in entrambe le direzioni. Un rapporto stretto con il governo. La Francia usa i servizi per fare una politica economica di potenza. L’Inghilterra fa la stessa cosa. Noi non lo facciamo. Forse perché c’è una sorta di pregiudizio...».

Forse non si fidano fino in fondo. Sa, i fantasmi dei servizi deviati...

«Citati a vanvera. Che vuol dire servizi deviati? Attribuiamo le responsabilità ai singoli, non al servizio».

A proposito, nel suo libro non si parla degli errori dei servizi segreti italiani nel dopoguerra. Le opacità e i coinvolgimenti nella stagione delle stragi, l’uso disinvolto dei fondi riservati, fra i tanti. Come mai non ne ha parlato?

«Ho voluto fare una storia dei servizi. Quello di cui lei parla è cronaca. Per affrontare queste vicende bisogna che le situazioni decantino. Quando saranno usciti di scena tutti i protagonisti e la situazione non ha più riflessi immediati sulla realtà si potrà fare una riflessione critica. Non prima. È un lavoro da storici».

Come si fanno funzionare i servizi contro la minaccia del terrorismo, la minaccia numero uno oggi?

«Se vuole far funzionare un servizio oggi, contro il terrorismo come contro ogni altra minaccia, si deve aver iniziato dieci anni fa a dargli mezzi uomini e materiali, perché l’attività informativa presuppone una base di conoscenza che non si acquisisce in un giorno. Quindi, serve programmazione, serve come ho detto una scuola che produca dirigenti preparati e servono risorse e direttive chiare. Altrimenti si fa quel che si può in casa, usando a livello internazionale soprattutto i dati dei servizi alleati».