Desio, 17 gennaio 2012 - C’era un ragazzino smilzo che, nel 1990, una volta la settimana raggiungeva l’aula del consiglio comunale di Desio, allora in provincia di Milano, e si sedeva sempre nello stesso posto, attento a farsi notare senza dare troppo nell’occhio.

Aveva 18 anni. Indicava con il dito gli scranni. «Un giorno mi siederò lì», diceva. Si chiamava Massimo Ponzoni. Del resto, ci sono quelli che da piccoli vogliono fare i piloti di Formula 1 o i calciatori o gli astronauti. Lui voleva fare il politico, e qualche anno più tardi avrebbe cercato di dare l’impressione che non gli fregasse niente del fatto che fosse chiamato il numero uno di «Fozza Itaglia, il partito dei calabresi». A dire il vero calabrese non è (nato a Salò, classe 1972), ma aveva capito troppo presto che per fare politica bisogna sapere incassare.

In consiglio riuscì a sedersi per la prima volta nel 1995, eletto per il partito di Silvio Berlusconi. Consigliere più votato, poi presidente. Nel 1994, aveva 22 anni, fondò il terzo circolo azzurro, riuscendo in un batter di ciglia a far fuori i vecchi referenti del Psi e gli uomini nuovi. «Il nuovo sono io», diceva. Era l’inizio di una cavalcata che in 18 anni l’avrebbe portato in alto, fino all’assessorato alla Protezione civile della Regione Lombardia; e che poi l’avrebbe scaraventato all’inferno, davanti alla porta della cella del carcere dove oggi la Finanza vorrebbe chiuderlo, se solo riuscisse a trovarlo.

Titolo di studio: diploma di geometra. Professione: costruttore. Ma il desiano rampante, tutto sorrisi, baci e pacche sulle spalle, tutto promesse e amicizie pericolose, ha fatto sempre e solo un mestiere, il politico. Che sarebbe finito in galera chi lo conosceva bene se l’aspettava. Da tre anni il problema non era più capire se, ma intuire quando. Ora che quel giorno è arrivato, di «Re Massimo» o di «Mister Preferenza» non resta che una carrellata di foto senza senso.

Una passione smisurata per la politica, la sua. Quando tentò per la prima volta la scalata al Pirellone si presentò in banca: «Ho bisogno di soldi per la campagna elettorale». Gli fecero un prestito. La politica per la politica, il potere per il potere. Uno capace di chiamarti alle tre di notte e di chiederti: «Secondo te, questa volta, Berlusconi ce la fa?». Era capace anche di stare ad ascoltare attentamente gente come Pippo Civati del Pd o Carlo Monguzzi dei Verdi, due che più diversi di lui non si può. Li stimava, e per davvero. Ma sapeva di essere un’altra cosa. «Questi sono forti, hanno un sacco da dire e sanno quello che vogliono. Poi, però, i voti ce li ho io».

Il Ponzoni pensiero, in fondo, è tutto qui. Per questo è stato soprattutto attento a costruire una fenomenale macchina del consenso, tanto efficiente quanto sospetta. Con i calabresi o contro i calabresi, a seconda di cosa convenisse. Contro Rosario Perri o con Rosario Perri, dipendeva dal momento. Nel 2005, alla sua seconda campagna elettorale per la Regione, puntò con decisione a un assessorato. Servivano uno slogan («Orgoglio e passione») e una dimostrazione di forza. Decise di non far prigionieri. E le sue 19.866 preferenze stordirono i non pochi avversari interni. Molti di quei voti, secondo la Procura, erano della ’ndrangheta. Di sicuro lo votarono in tanti. I ciellini perché conveniva, i calabresi perché con lui almeno potevano parlare, i desiani perché era di Desio. Quelli di Cesano Maderno perché così lui, in cambio, aveva fatto appoggiare il candidato sindaco di centrosinistra.

Proprio quel suo parlare con tutti è stato l’inizio della rovina. Uno capace di stare un’ora a discutere con donnine di chiesa pur di catturare il loro sostegno, ma allo stesso modo capace di ascoltare brutti ceffi, pregiudicati, affaristi di lungo corso. Istruito, non colto; sveglio, non raffinato. Ambizioso, ma in grado spesso di capire quali fossero i suoi limiti. Incapace, invece, di intuire fino in fondo che per lui le cose si stavano mettendo male. Tanto che per anni ha continuato a correre, cambiando un’auto per comprarne una ancora più grossa, buttando un telefonino per comprarne uno ancora più sottile.

Le intercettazioni degli uomini della ’ndrangheta che assicuravano di averlo in pugno? «A quelli io non ho mai chiesto nulla». Il crac delle immobiliari? «Sono stato tradito da gente di cui mi fidavo». L’insistenza della Procura? «Mi ha interrogato Mapelli. Secondo me è una bravissima persona, solo che di politica non capisce niente». Fino all’altra notte. Fino a quando le sue sensibilissime antenne gli hanno fatto percepire che le cose precipitavano e che il carcere era vicino. Sparito, disperso, svanito. Che sia all’estero per lavoro non lo crede nessuno. E quest’assenza che sa di fuga, il peggiore dei tradimenti, racconta ancora una volta la stessa cosa. Ponzoni pensa che non sia finita, perché in politica solo i morti non hanno futuro. Sbaglia. Qualcuno, prima o poi, dovrà dirglielo.