Caponago, 9 marzo 2011 - Il giallo è quello delle magliette di protesta, altro che mimose. Altro che festa. È l’ 8 marzo della disperazione per le donne della Corden Pharma. Tante, centinaia. In piazza con i colleghi uomini, ieri, per chiedere diritti. Uno soprattutto, la cassa integrazione. Che la multinazionale del farmaco non vuole concedere. Per i dirigenti tedeschi la medicina contro la crisi è il licenziamento di 212 lavoratori, la metà donne, con la mobilità diretta, senza ricorrere agli ammortizzatori sociali. Diritti negati, come, o forse peggio, di cent’anni fa. E allora sciopero. Ieri mattina un’ora con le braccia incrociate, fuori dai cancelli della ditta, la strada occupata per alcuni minuti dal corteo arrabbiato e dignitoso. Tecnici, operai, impiegati, la scritta rossa «esubero» sulla maglia, i tamburi, il megafono. Parole rassegnate e generose, parole di donne. Rita Rodica lavora in via dell’Industria da 31 anni, lo stabilimento ne ha 41. Soffre. «Mi viene da stare male, avevamo avuto delle difficoltà negli anni scorsi, qui però siamo al dramma», e lei pensa agli altri, ai colleghi più giovani: a luglio accetterà il prepensionamento, anche se le mancano quattro anni alla pensione: «Lo faccio per salvare i giovani, per dare loro una possibilità», ne hanno bisogno.

 

Perchè la fabbricaè popolata di ragazzi e persone di mezza età: la media è di 46 anni. Il salvagente del prepensionamento dunque è riservato a pochi, qualche decina di dipendenti. Per la maggioranza c’è solo l’incognita del futuro. Famiglie con bambini, interrogativi, angoscie. Storie d’amore nate nei reparti, negli uffici. Teresa Ortucci stringe al petto il figlio Tommaso, l’ultimo arrivato, ne ha due. Cinque anni fa alla Corden ha conosciuto suo marito, Davide Cusa. «Qui dentro abbiamo costruito la nostra famiglia, quando ci siamo incontrati le prospettive erano diverse, abbiamo deciso di fare figli perchè ci fidavamo dell’azienda.

 

Ora se perderò il lavoro sarà un disastro», dice Teresa mentre spinge il passeggino in fondo al corteo. Il marito è uscito per tempo, ha trovato un’alternativa, resta un solo stipendio per mantenere quattro persone: «Sono un tecnico di convalida, per fortuna sono riuscito a trovare un altro posto, ma d’ora in avanti guarderemo i prezzi nei supermercati, il costo della vita è altissimo, dobbiamo stringere i denti e andare avanti», ammette Cusa, lavoratore qualificato, come molti altri. Come Marinella Galbiati, 33 anni, un figlio di 4, nei laboratori della Corden, ex Astra Zeneca, dalla fine degli anni Novanta. Un’ascesa, sembrava. Stabilizzata nel 2002, competente, professionale. Poi il baratro.

 

«Voglio troppo bene  alla mia famiglia per restare senza lavoro». Pausa. «Cosa faccio? Cosa dico a mio figlio?». La linea di non ritorno si avvicina, con l’estate arriverà la mannaia. «A luglio rischiamo di diventare disoccupati, quando l’anno scorso ci hanno chiesto l’impossibile, l’azienda andava a gonfie vele». Fino al crac, alla perdita di una commessa negli Stati Uniti: il cliente principale non comprerà più l’anestetico Diprivan a Caponago. Fatturato dimezzato, posti di lavoro falcidiati. E lo scandalo della cassa integrazione che non arriva. «Mi viene l’ansia, a 33 anni sono qui a sperare nella cassa integrazione». Accanto a lei c’è Monica Galbiati, dramma nel dramma, suo marito è in cassa. «Non so davvero come faremo. L’unica speranza è che ci diano gli ammortizzatori sociali per restare un altro anno, aspettando una possibile ripresa». È durissima. Marco Fontana scuote la testa: «Ricollocarsi sarà sempre più difficile, lavoro qui da 23 anni come responsabile, dico che le prospettive sono nere anche per chi manterrà il posto». L’ultima frase è un coro. «La cassa integrazione ci spetta». Più che una frase, un diritto.