Monza, 19 ottobre 2010 - Prima l’hanno rapita a Milano e l’hanno portata a Monza, in via Marelli, un casolare all’estrema periferia della città. E qui l’hanno interrogata a lungo, forse l’hanno anche torturata, finché hanno deciso che era giunto il momento di farla finita: e allora le hanno sparato un colpo di pistola alla testa uccidendola, poi si sono liberati dei suoi resti sciogliendoli nell’acido. Sapevano che quel posto, un casolare protetto da mura e recinzioni a prova di curioso, in una zona molto isolata e silenziosa della città, era l’ideale per i loro propositi. Nessuno poteva sentire, nessuno avrebbe dato fastidio.
 

 

Lea Garofalo, 36 anni, è morta così, verosimilmente nella notte fra il 24 e il 25 novembre scorsi. Una morte tremenda, una morte iniqua.
La vicenda portata alla luce in questi giorni dai carabinieri del Nucleo investigativo di Milano è agghiacciante e riporta ancora una volta la ’ndrangheta al centro delle cronache cittadine.
Lea Garofalo era stata collaboratrice di giustizia proprio per i trascorsi della sua famiglia nella ’ndrangheta. E a rapirla e a farla uccidere, secondo gli inquirenti, è stato il suo ex convivente, Carlo Cosco, destinatario ieri mattina per questa vicenda di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, dove già si trovava per un altro tentativo di sequestro ai danni dell’ex compagna, andato a vuoto, di cui era stato il mandante qualche mese prima.
 

 

In via Marelli dunque si consuma una tragedia annunciata. È infatti da quando la povera Lea Garofalo era scomparsa, lo scorso 25 novembre, che i carabinieri del Nucleo investigativo di Milano sospettavano fortemente che la donna fosse stata vittima di un caso di "lupara bianca", fosse stata cioè uccisa nelle pieghe di una faida di ’ndrangheta che si trascinava da almeno trent’anni nella zona di Petilia Policastro, paese natìo della donna in provincia di Crotone, e che i suoi resti fossero stati fatti sparire chissà dove.
La via Marelli è una lunga striscia di asfalto ai confini fra Monza, Muggiò, Sesto San Giovanni e Cinisello Balsamo. Una strada costeggiata da appezzamenti di terreno spesso incolti su cui sorgono casette, aziende, cantieri e depositi. Molti dei terreni della zona sono di proprietà di una famiglia di nomadi italiani, gli Ulia, ormai stanziali da anni, che lavorano come giostrai.

 

Anche la casupola degli orrori, ad appena una cinquantina di metri dal cimitero di San Fruttuoso, sorge su un terreno di loro proprietà. La famiglia Ulia non si nasconde ed esce dai cancelli di casa a parlare tranquillamente con i giornalisti. Sono sconcertati. Michele Ulia, con il figlioletto in braccio, si avvicina gentile: "È incredibile, chi avrebbe mai immaginato una cosa simile... Noi viviamo qui da una vita, saranno almeno 25 o 26 anni, e non abbiamo mai avuto problemi: la nostra famiglia viene dalla Germania, mio nonno era tedesco, mia nonna francese, abbiamo sempre fatto i giostrai ma qui abbiamo costruito la nostra casa e non abbiamo mai avuto problemi". E poi un sospiro, "colpa dei calabresi". In una strada dove i terreni e le case della famiglia Ulia sono preponderanti, "due anni fa sono arrivati lì, nella casa di fronte, dei calabresi. Ci sembravano brave persone, lavoravano nell’edilizia e due anni fa ci hanno chiesto di affittare uno dei nostri terreni: è quello dove è successo il fattaccio".
Stella Ulia, la sorella di Michele, non si dà pace: "Parlano sempre male di noi, ci chiamavano zingari - anche se non è vero - solo perché lavoriamo come giostrai... e poi vai a vedere cosa hanno fatto quei calabresi, guarda cosa salta fuori: ammazzare una donna e scioglierla nell’acido...".