Paolo Galbiati da Concorezzo alla Coppa Italia: "Una vita a Milano, il botto a Torino"

Intervista al coach esordiente assoluto che con la Fiat ha conquistato la coppa nazionale

Paolo Galbiati portato in trionfo dai tifosi torinesi felici e commossi (LaPresse)

Paolo Galbiati portato in trionfo dai tifosi torinesi felici e commossi (LaPresse)

Concorezzo (Monza Brianza), 20 febbraio 2018 - «Nemo propheta in patria», recita un antico detto latino. Calza a pennello per Paolo Galbiati, coach della Fiat Torino che ha vinto la Coppa Italia. Classe 1984, originario di Concorezzo dove ha vissuto fino a pochi mesi fa, esordiente assoluto. Una decina d’anni circa nelle giovanili dell’Olimpia (scudetto U17 nel 2013), con più di una collaborazione con la A, ma senza mai la reale possibilità di diventare “grande”. Ma quest’estate cambia tutto: Banchi, che aveva conosciuto a Milano, lo vuole come assistente. A gennaio le sue dimissioni, l’interregno di Recalcati di 20 giorni e poi la promozione inattesa a head coach.

Quando è suonata la sirena cosa ha pensato?

«Il tiro di Moss mi è durato un’eternità. La prima cosa che ho fatto è stata abbracciare il mio papà. Durante la partita, dopo qualche protesta, ho visto il suo sguardo, mi ha fatto cenno di fare silenzio, mi sono fidato, mi ha aiutato. Poi tutti hanno iniziato ad abbracciarmi e non ho capito più nulla».

C’è stato un momento in cui ha pensato di essere sulla strada giusta per farcela?

«Fino a pochi anni fa pensavo che avrei fatto sempre solo settore giovanile perchè sono innamorato di quel tipo di basket. Poi piano piano ho iniziato a dare una mano con la Serie A dell’Olimpia e ho iniziato a pensarci. ma sapevo bene che il salto in una società come l’Olimpia è difficilissimo. La scorsa estate quando Banchi mi ha chiamato ci ho messo mezzo secondo a decidere».

In venti giorni ha rivoluzionato Torino, quale il segreto?

«Ho ripreso a mettere un po’ di pressione ai giocatori a livello di pallacanestro, tornando di chiedere di correre, di andare in transizione, pensando meno e vivendo più di istinto. Ho mostrato delle clip facendo vedere loro quanto eravamo brutti quando giocavamo lenti. La chiave è stata la disponibilità di tutti nel voler tornare a giocare insieme».

Dell’esperienza all’Olimpia cosa si è portato dietro?

«Mi definisco un curioso del basket, a ogni coach con cui ho collaborato ho provato a rubare qualcosa. E poi certamente ho imparato a relazionarmi anche con i grandi. A Torino alleno Vujacic che ha vinto due titoli Nba, non posso mica trattarlo come il play dell’U17».

Nella sua carriera anche qualche anno di gavetta nelle “minors” allenando in C Gold a Boffalora e Bernareggio, cosa le è servito?

«Mi ha insegnato tanto, in queste categorie ci gioca e allena chi ha veramente amore per il basket e fa tanti sacrifici solo per amore della palla a spicchi. Io sono così».

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