Sergio Ottolina: "La mia vita tutta di corsa"

L'ex campione di atletica e la sua vita piena di sorprese, scherzi e insegnamenti

Sergio Ottolina

Sergio Ottolina

Lentate sul Seveso (Monza e Brianza), 22 maggio 2016 - Tokyo, 1964, Olimpiadi. Finale dei duecento metri piani. Dopo un curvone a perdifiato, sul rettilineo finale in testa c'è un ragazzo brianzolo: si chiama Sergio Eliseo Ottolina da Lentate sul Seveso. Lo rimonteranno, arriverà ottavo, vale a dire ultimo. “Ma io preferisco dire che sono arrivato “ottimo””. E giù una risata, mentre si prepara un “anicino” nella sua casa-rifugio di Lentate: “Dormo ancora nella stanza in cui sono nato”.

Sergio Ottolina (23 novembre 1942) è un personaggio così, guascone, controcorrente. Ed è uno dei più grandi nomi della stagione d’oro dell'atletica italiana, quando si vincevano medaglie e alle Olimpiadi si andava spesso in finale: suo per nove anni il record europeo nei 200 metri; due le Olimpiadi, consecutive, in cui si trovò a gareggiare (100 metri, 200, 4x100, 4x400).

Come in quella storica finale a Tokyo divisa con il campione Livio Berruti, oro quattro anni prima a Roma. O come a Città del Messico, da cui ripartì - finite le gare - per un'epica scorrazzata... in moto, altra sua grande passione. “In sella alla mia Laverda, che mi ero fatto caricare sull'aereo prima di partire per le Olimpiadi, mi sono fatto 8.500 chilometri: un mese da solo, da Città del Messico a New York”.

Perché? “Ero un incosciente e... volevo godermi un ultimo scampolo di libertà. Mi feci le riserve indiane pensando di trovare gli indiani a cavallo come nei film, invece quelli mi seguivano in moto pure loro!”.

Chissà quante avventure... “Dormivo nei motel più scalcagnati dei quartieri neri, dove a un bianco non era nemmeno consigliabile entrare: c'era molto razzismo, anche loro non capivano, ma a me mica interessava: per me era del tutto naturale”.

Del resto, basti ricordare cosa aveva appena fatto a quelle Olimpiadi messicane... “(ride) Partecipai a una rissa al Villaggio Olimpico. Da una parte gli atleti di Trinidad e Tobago, dall'altra gli australiani”.

E lei, da che parte stava? “Ovviamente coi primi. Avevamo fornito, noi Italiani, bottiglie di Valpolicella a profusione e si erano messi tutti a suonare con coltelli e forchette, a ballare e cantare. Gli australiani, che volevano dormire, protestarono; i neri risposero con l’insulto son of bitch, che in fondo trattandosi di australiani discesi da galeotti e prostitute non era nemmeno tanto falso... E fu rissa”.

Due Olimpiadi di fila... “Bellissimo, incontravi il mondo e correvi con lui. Soprattutto quelle del Messico: eravamo nel nostro mondo, parlavamo quasi la stessa lingua e c'erano... le messicane!”.

Ne ha sfiorate altre due, di Olimpiadi. “A Roma ’60 ero riserva, in Germania ’72 mi spaccai tallone e quattro vertebre in moto prima di partire…”.

Scanzonato, dalle mille vite. Papà padrone di una fiaschetteria, una sorella. Perché si mise a correre? ”Pur di non andare a scuola… a 15 anni al Gonzaga di Milano organizzavano i Campionati studenteschi e mi dissero che chi avesse fatto atletica era esentato dalle lezioni. Non sapevo neppure cosa fosse l'atletica, ma mi dissero che bastava correre e saltare… e io lo feci”.

Bene, direi… “Ero veloce, correre era la cosa più naturale che mi venisse... alle gare c’erano gli osservatori della Federazione e mi hanno “beccato” subito”.

La sua carriera andò bene… “Sono stato fortunato ad andare forte e fare il record europeo quando si correva ancora relativamente in pochi e il mondo era più ristretto, non c'era la concorrenza di adesso…”.

Perché si corre? “Perché è la cosa più naturale del mondo, chi non lo ha mai fatto? Fosse solo per andare a prendere il tram…”.

L’atletica si direbbe una cosa seria. “ Ma io non la prendevo così, ero un zuzzurellone, mica un “fanatico come Berruti o Mennea… se c'era da andare a pescare o in moto o a donne, io ci andavo…”.

Fu compagno di Berruti per anni… ma gliene fece di ogni… “Ma abbiamo recuperato il rapporto, mi ha telefonato anche di recente e io come sempre mi metto sull’attenti: era il mio capitano!”.

Però? “Però da ragazzo era così ligio, forse timido, e un po’ antipatico. In squadra non lo sopportava nessuno e io…”.

Gli fece scherzi passati alla storia. “Una volta organizzai le sue finte nozze: andai al suo paese natìo per spedire le partecipazioni, ci mise un mese a restituire tutti i regali…”.

E le scarpe? “Era sempre vestito tutto di bianco quando gareggiava: scarpe, calzoncini, mutande, calzini… e io odiavo tutto questo candore”.

E...? “La sera prima di una gara lasciò le scarpe fuori dagli alloggi... gliele feci ritrovare nere col lucido da scarpe da militare. Non voleva più correre, i nostri dirigenti allora ci radunarono e ci dissero: “o salta fuori il responsabile... o non corre nessuno!”. E io, dopo qualche minuto di panico, mi feci avanti. Ma allora si alzarono tutti i miei compagni, uno dopo l'altro, sembrava una scena da film... E alla fine, nessuno fu punito e Berruti corse con le scarpe di riserva”.

Finito con l’atletica, ha fatto tutt’altro. "Mai tenuto un trofeo, ho preferito venderli piuttosto che tenerli in un cassetto. Stetti con una ragazza cinque anni e venne a sapere del mio “glorioso” passato da atleta solo alla fine… come correvo in modo spontaneo, così facevo della mia vita: lo sport ha il suo spazio, ma finito quello si va avanti a fare altro”.

Non si annoiò. “Feci “bob a 4”: siamo arrivati terzi ai Campionati Italiani e per un pelo ho mancato la qualificazione alle Olimpiadi Invernali del '76”.

E le moto? “Fino a due anni fa ci andavo ancora, ho girato Europa e Africa”.

Prima, era stato anche in Sudafrica… “Mi aveva invitato Marcello Fiasconaro, l’atleta (italo-sudafricano,ndr) che mi aveva levato il record italiano nei 400…”.

E lei si improvvisò giornalista. “Feci il corrispondente in Sudafrica per la Gazzetta dello Sport, ma sotto pseudonimo; mi firmavo Otto (daOttolina) Krumenacher (dal nome dello starter di Zurigo). In Sudafrica nacque anche mia figlia, Greena, da verde…”.

E con la moto seguì pure un Giro d’Italia. “Quello del ’69, motociclista ufficiale per la Gazzetta dello Sport…”.

Fece anche il venditore: abbigliamento da tennis con Sergio Tacchini, moto Honda.... “Vissi anche tre anni alle Maldive, come istruttore di snorkeling. Sono sempre stato un gran pescatore, alle Maldive ero pure capo pesca…”.

Insomma, ha girato il mondo. “E ho apprezzato i cosiddetti Paesi poveri: ho imparato a stare al mondo e a valutare e vedere le persone con i loro occhi oltre che con i miei. Ma la radice è sempre stato il mio giardino e la mia casa in Brianza...”.

Romantico… “Devo ringraziare i miei genitori di avermi lasciato fare atletica, ho imparato la lealtà, che nello sport spesso manca (non sopporto quelli che si dopano!) e il rispetto degli avversari”.

Basta melassa, mi parli un po’ di aringhe…

“(ride) Berruti aveva la Giulietta Sprint perché aveva vinto l’oro a Roma ma con le ragazze non era molto fortunato: e così, quando venimmo a sapere che ne doveva portare una – che fra l’altro piaceva a tutti – a fare un giro, legammo le aringhe al tubo di scappamento col fil di ferro… le lascio immaginare l’odore che si sprigionò… Del resto contro di lui ci coalizzavamo sempre tutti…”

Perché? “Si faceva pagare per accompagnarci da Schio, sede dei raduni, a Milano”.

La felicità per Sergio Ottolina? “Ogni gara per me era felicità, anche se perdevo... perché bisogna anche imparare dalle sconfitte, mentre quando vinci non impari niente. Correre è bellissimo, specialmente a piedi nudi, ti senti volare. In fondo siamo nati nudi e correre è la libertà assoluta, specie sull'erba soffice e ben rasata delle piste di atletica, che noi atleti attraversavamo sempre di corsa a piedi nudi, in diagonale perché quella sensazione durasse di più”.