L’Autodromo di Monza perde pezzi di storia: addio anche al ponte Dunlop

Smantellato l’arco simbolo degli anni d’oro del circuito di Formula 1

Un'immagine amarcord del ponte Dunlop

Un'immagine amarcord del ponte Dunlop

Monza, 19 gennaio 2017 - Alla fine degli anni Sessanta era il ponte Dunlop. Un arco con la forma di uno pneumatico – proprio come quello della mitica pista di Le Mans – sul rettilineo che dopo il curvone di Biassono porta alla Variante della Roggia. Negli anni Novanta era stato ribattezzato ponte Campari con quei suggestivi pannelli pubblicitari che nei giorni del Gran premio di Formula Uno hanno proiettato in mondovisione la sagoma del Duomo di Milano realizzata con un collage di bottiglie. Era il ponte degli sponsor, con una postazione dei commissari di pista e una telecamera tv. Ma negli anni è stato abbandonato. Chiuso pure al passaggio pedonale dei tifosi da una parte all’altra della pista. Lasciato a marcire e inevitabilmente destinato a diventare fin quasi un pericolo. Nemmeno la presenza di Santander prima e poi Rolex, sponsor di lusso della F1 moderna, sono riusciti a farlo restare in piedi. Dondola e va abbattuto.

Demolito il ponte Dunlop all'Autodromo di Monza
Demolito il ponte Dunlop all'Autodromo di Monza

Demolito in tre giorni. Scomparso, portandosi via un altro pezzo di storia di un Autodromo che per ubbidire alla Formula Uno di Bernie Ecclestone negli ultimi 15 anni ha cancellato i suoi simboli. Lavori spesso inevitabili. Ma quasi un sacrilegio nel Tempio della velocità. E non è per i vecchi box che certo dovevano essere ammodernati. È più per le due torri alte 12 metri, poste ai lati del cancello d’ingresso alla pista, simbolo dal 1922 dell’Autodromo, rase al suolo. Restano solo nelle foto color seppia accanto a quelle del podio, inaugurato nel ’55 e finito in un cumulo di macerie per diventare l’attuale podio circolare sospeso sulla linea del traguardo.

Nel 2002 le ruspe si sono portate via pure la stanzetta che era negli anni Sessanta l’ospitalità del conte Domenico Agusta, la palazzina Agip (prima sede della direzione del circuito) e il Villaggio che resisteva dal 1963. Via le casette usate per ospitare prima il Centro di medicina sportiva e le scuderie automobilistiche, poi i costruttori di auto e infine gli sponsor. Tutto sfrattato per quel faraonico building dei giorni nostri sul paddock dorato e blindato. Togliendo la “piazzetta” ai tifosi che ormai avevano preso l’abitudine di ritrovarsi seduti sul bordo della vasca dei pesci con lo stemma della Sias disegnato a “mosaico” sul fondo, per discutere di corse o aspettare il passaggio dei piloti diretti al ristorante e raccogliere così un autografo, una stretta di mano o anche soltanto un sorriso. Erano gli anni d’oro di una Formula Uno che ancora appassionava. Ora, a testimonianza, sono rimaste le curve Sopraelevate, le vecchie rimesse, un pezzo della storica pista Pirelli in porfido. Simboli, ricordi e cimeli di un museo che l’Autodromo non ha mai voluto. Lasciando che la sua storia - che in fondo è anche un pezzo della storia dell’automobilismo sportivo mondiale - finisse nelle collezioni private di appassionati stranieri. O, peggio, in discarica.