Milano, un grande convegno per parlare della tragedia del popolo curdo

L’evento, organizzato dall’associazione Senza Dominio Medio Oriente, si terrà dal 12 al 16 febbraio allo Spazio ex Fornace di Milano di GIUSEPPE DI MATTEO

Un'immagine della mostra sul popolo curdo

Un'immagine della mostra sul popolo curdo

Milano,13 febbraio 2016 - Una terra martoriata da una guerra civile silenziosa, ritagliata lungo cinque  linee di frontiera (Turchia-Siria-Iraq-Iran-Armenia), ma con una storia che cavalca i secoli.  Da decenni i curdi sono oggetto di dibattito e accendono l’interesse degli storici, ma solo a fasi alterne.  Recentemente sono ritornati al centro delle cronache perché, per molti, costituiscono l’unico avamposto  “militare” contro lo Stato Islamico entro il confine siriano. E la città di Kobane è diventata simbolo della resistenza resiliente di un popolo-nazione di 30 milioni di abitanti, ma senza Stato. E proprio per sensibilizzare l’opinione pubblica su quello che sta avvenendo in quest’area l’associazione Senza Dominio Medio Oriente, in collaborazione con Popolo Kurdo e Umanità, ha deciso di organizzare dal  12 al 16 febbraio un grande convegno allo Spazio ex Fornace di Milano (Alzaia Naviglio Pavese 16). 

Attraverso alcune installazioni video-fotografiche, spettacoli di musica e danza, e proiezioni di documentari, l’evento si propone di essere anzitutto un momento di incontro e riflessione, e di accendere un faro sulla  situazione drammatica del Kurdistan Turco, ma non solo, riportata a spizzichi e bocconi da una stampa occidentale sonnacchiosa. Marika Bertoni, 31 anni, è un’attivista dei diritti umani. Da anni racconta i curdi con le sue fotografie.  “Considero questo popolo un modello e un grande esempio di resilienza - sottolinea - se si pensa che  affronta valorosamente l’Isis ed è combattuto dai turchi”. Dall’altra parte della stanza si intravedono alcuni  autoritratti di guerriglieri curdi, che le sono stati gentilmente inviati. “È l’unico modo per far conoscere  parte di questa storia - afferma -, se quelle foto circolassero in Turchia sarebbero dolori, molti di loro  sarebbero condannati a morte”.

Sul grande tappeto, che raccoglie scarpe abbandonate, (come prescrive  l’usanza) qualcuno si rilassa al ritmo di canzoni popolari improvvisando balli. Poco distante, un piccolo  crocchio di gente sorseggia un bicchiere di tè aromatico, accompagnato da pasticcini locali. Ibrahim  Kasakoglu, 59 anni, è seduto in disparte. Giornalista curdo, da 16 anni in Italia come rifugiato politico  dopo averne passati altrettanti nelle carceri turche tra il 1981 e il 1997, maschera con fare timido le sue  affermazioni taglienti. “Voglio che si sappia che in Kurdistan, e in particolare a Cizre, si sta consumando un  genocidio nel silenzio dell’Occidente - dice - e ciò mi sorprende, perché qui c’è libertà di stampa. L’Europa  dovrebbe far notare alla Turchia i suoi errori, invece di tacere”.

Da anni parla di queste cose sul quotidiano Ozgur Gundem, pur in esilio.  Accanto a lui Ozlem Mizgin, studentessa curda 22enne dell’Università Statale di Milano. Il suo italiano senza sbavature è anticamera della cittadinanza, che dovrebbe arrivare a breve. Anche lei un rifugiato  politico, che ha dovuto abbandonare la sua terra a 7 anni: “Non potevamo restare lì, non c’era futuro -  ricorda - da voi le cose vanno bene, e io mi sento italiana”. Ma ci tiene anche a smentire alcuni pregiudizi sui migranti: “Qui si pensa che siano tutti dei poveracci, ma è una falsità - ribadisce - io vengo da una  famiglia di proprietari terrieri, anche se poi, all’estero, al massimo puoi aspirare a fare l’operaio o la donna  delle pulizie”. Ci pensa un attimo ma poi affonda: “Dipende anche da dove vieni. Perché, si sa, la ricchezza  sbianca”. La serata si è conclusa con un intervento di Enrico Fovanna, giornalista del Giorno, che ha ripercorso la  storia del popolo curdo. “Una nazione che ha avuto la sfortuna di ritrovarsi nella guerra civile tra sunniti e  sciiti - sottolinea - ma della quale l’Europa si è ricordata molto tardi, e solo per convenienza. Un processo di  pace nell'area non può che passare da un accordo tra le grandi potenze”.

di GIUSEPPE DI MATTEO

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