Milano, 19 settembre 2013 - Massimo Moratti il 26 febbraio 1995, non comprò l’Inter franco vagone partenza: pagò la cauzione al passato. Per ritornarci. A ribadire sulle cose nerazzurre il riverito cognome che dagli Anni Sessanta era ed è sinonimo di luci a San Siro, notti di Coppe dei Campioni, giorni fausti di scudetti e struggimenti vari. Perché essere bauscia, finanche nel mondo globalizzato suscita un matassone inestricabile di emozioni, evoca un genius loci benigno e pragmatico, ma anche infervorato di idee a grappolo (qualcuna sbagliata, ma a far media sono quelle buone), uno di quelli che hanno fatto Milano al di là delle balle del miracolo economico, della capitale morale e vicina all’Europa.

Industre figlio del padre: Angelo, come si dice, era proprio venuto su dal niente: dal grezzo destino si era raffinato un impero dal greggio. Il Massimo non è partito dal niente, anzi: è partito dal tutto. Ma emulare un genitore di successo, ce lo ricorda l’incostanza del sangue e l’incertezza così umana dei suoi esiti, non è impresa da poco. Il 26 febbraio 1995 era un giorno di pioggia e di sole insieme, di quelli in cui - secondo credenza giapponese precedente all’avvento di Nagatomo - le volpi tengono i loro sponsali. Giorno d’incerta sorte, né buona né cattiva: da vero interista, dolore e piacere - manco fosse un epigono di Leopold von Sacher Masoch - indissolubilmente legati. Alla moglie Milly, che temeva più grattacapi che allori dall’acquisto della Beneamata, Massimo tenne nascosta l’operazione fino all’ultimo.

Giusto quando tornò a casa dopo avere stretto la mano al patron uscente, Ernesto Pellegrini, buttò lì la cosa con noncuranza. «Ciao, sei stanco? Oggi come è andata?: «Be’ stamattina ho incontrato Tizio, ho pranzato con Caio. Ed eccomi qui. Ah be’, sì: poi ho comprato l’Inter». Si sa : nell’emulazione del padre presidente e dominus dell’Inter (tre scudetti, due Coppe dei Campioni, due Intercontinentali), il Massimo non ha badato a spese: qualche anno dopo, al traguardo dei mille miliardi (di lire) investiti per rifare grande la Beneamata, Moratti junior si sentì rinfacciare d’avere speso quell’enormità per vincere solo una Coppa Uefa. Il che, tecnicamente era vero.

Ma il forsennato sogno di vittoria restava un cantiere aperto, un lavoro in corso. Il suo primo acquisto (dato per disperso, da subito, Avioncito Rambert, una puntina non memorabile) fu il più azzeccato e angolare: Javier Zanetti. Come detto, ne seguiranno tantissimi altri, qualcuno strepitoso e sfortunato, come Ronaldo; qualcun’altro solo sfortunato o insignificante, ma nel mazzo delle carte nobili e costose, quanti eccellenti, come Djorkaeff o Recoba (indolente e discontinuo nel suo genio, ma il Massimo lo ha adorato fino ai confini dell’aneddotica), Ibrahimovic e poi a seguire la grande falange dei vincitori di cinque scudetti, una Champions, un Mondiale per club, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. 

Con gli allenatori il Massimo ha seguito, diremo così, ragioni istintuali. Come se le panca più logorante dell’universo conosciuto fosse in realtà la metafora di un itinerario colletivo verso la redenzione e la perfezione. Tutti i chiamati e poi esonerati - da Bianchi a Simoni, da Cuper a Stramaccioni - dopo la subitanea e umana sopresa d’essersi sentiti levare l’appoggio di sotto le chiappe, hanno conservato comunque un rapporto di stima col patron. E il patron ha avuto il medesimo trasporto nei confronti delle eccezioni, e cioé quelli che se ne sono andati da sé come Mourinho e come la meteora (di ritorno?) Leonardo. Nell’impervia rincorsa alla vittoria Moratti s’è infine esaltato con Roberto Mancini, che ha inugurato la lunga fase vincente della presidenza, partendo con nonchalance dalla Coppa Italia. 

Da Mancini in su, venendo finalmente a fiore una squadra organica in cui le ulteriori spese hanno avuto un senso ancora più compiuto, Moratti s’è avvitato al successo, meritato e finanche reiterato, dopo il primo freddo scudetto assegnato all’Inter dal burrascose di Calciopoli. Dopo dieci e passa anni di tentativi, il Massimo era pronto a raccogliere le prime mele dall’orto delle Esperidi. Sicché al colmo della fertile estate nerazzurra arrivò José Mourinho, il tecnico eponimo del Triplete, così paragluteo e bravo a comunicare d’essere bravo, da prendersi tutto il proscenio.

Due anni splendidi, la Champions centrata al secondo colpo, spremendo ogni giocatore e, in qualche caso, facendogli dare più di quanto potesse in natura. Miracoli del pragmatismo. L’ineffabile Mou però se n’è andato come si sa sul più bello - come facevano gli eroi dall’antichità al Far West - restituendo a Moratti il primo piano, quello dello speaker’s corner del lunedì, sotto l’azienda di famiglia, infrasuoni in libertà sorridendo spesso. Con Benitez, fugace panca, l’Inter colse quasi per inerzia l’alloro del Mondiale per club. Poi il tempo ha fatto il suo lavoro: l’Inter vincente, è entrata - o vana gloria delle umane posse - nel trituratore. Il presidente tifoso s’è passato una mano sulla fronte: dal futuro che s’affaccia in fretta, Moratti ha traguardato prima una locomotiva cinese, che tuttavia è sparita ben presto col suo fumo di drago. E da maggio è comparso un indonesiano con nome da vichingo. L’avrebbe mai detto, il Massimo, che il nuovo incomincio di quell’Inter che lui non smetterà d’amare, sarebbe forse partito da un cugino in terzo grado di Sandokan?

di Claudio Negri