La guida ai film a cura di Silvio Danese:

 

STANNO TUTTI BENE: di Kirk Jones. Con Roberto De Niro, Drew Barrymore
Dal film di Tornatore (1989), Jones depura i paradossi sentimentali e quella autocommiserazione paterna che costrinse Mastroianni a un ruolo di caricatura mattatoriale. Padre di 4 figli che crede appagati nel successo, il vedovo De Niro, operaio in pensione, viaggia negli States e scopre che, ciascuno a suo modo, gli ha mentito, assecondando l’equivoco frequente delle prioiezioni genitoriali di gloria. Scrisse Morandini nel ’90: «Magniloquente, tiepido, ripetitivo, inquinato da molti stereotipi e arricchito da poche invenzioni». Sono difetti che questa versione riesce a schivare affidando a un attore meno empatico un personaggio più ambiguo. Qualche standard del film di famiglia.

 

POLITICHE di François Ozon. Con Catherine Deneuve, Fabrice Luchini.
Nella dimora dell’aggressivo industriale dell’ombrello Pujot prende in mano la rivendicazione salariale la moglie, «bella statuina» (potiche) confinata e cornificata da 30 anni. La lotta familiare per il potere, non dissimile dalle prove di avidità dei peggiori squali della finanza, sconfina nella politica... Scatenati dalle battute dell’adattamento della pièce di Barillet & Gredy, Deneuve, Luchini e Depardieu guizzano. Tempi teatrali, costumi pittorici, cadenze musicali, tutto funziona, spigolando tra Wilder, Sirk, Demy, con qualche formalismo. Mimetizzato negli anni ‘70 delle lotte sindacali, Ozon ha nel mirino la marmellata nostra quotidiana.

 

UNSTOPPABLE di Tony Scott. Con Denzel Washington, Chris Pine.
Thriller catastrofico di motrici e convogli ferroviari, unico nel suo genere. Parte con ritmo, presentando le carte: due macchinisti coraggiosi, un treno merci allo sbaraglio con sostanze letali, la direttrice emergenze, il boss della compagnia che pensa alla caduta in borsa da disastro. Si sviluppa come un action movie plastico, di grafica pulsante. Sfonda il muro della verosimiglianza con elicotteri e inseguimenti a marcia indietro. Diventa «Top Gun» dei binari. Entra nella zona della noia per sconforto da iperattività. Spara una sequenza coi vagoni che curvano in derapata. E finisce con le bandiere a stelle e strisce, gli applausi per gli eroi, le famiglie orgogliose e i baci. Spettacolare e tossico.


 

MASCHI CONTRO FEMMINE: di Fausto Brizzi. Con Fabio De Luigi, Alessandro Preziosi.
Impaginazione per tutte le età a episodi paralleli da soap tv, cast salvavita, come sempre in questi casi. L’allenatore (De Luigi) della femminile di basket che cede alle lusinghe della capitano (Eva Castelli), il dongiovanni (Preziosi) collezionista di mutandine internazionali delle «sceme ma bbone», lo studente acqua e sapone (Vaporidis) che scommette con l’amica lesbica la seduzione di una ragazza... Titolo da circolo calcistico, film adeguato. Sceneggiatura non di dilettantesche imitazioni, ma di professionali banalità. Brizzi ha abbandonato le doti dell’esordio, persegue l’esperienza un tanto al chilo di mastro Parenti. . Un film inerte di sicuro successo.

 

UOMINI DI DIO:  di Xavier Beauvois. Con Lambert Wilson, Miachel Lonsdale.
Nel 1996 7 cistercensi dei 9 di un monastero nel Magreb (Algeria) furono rapiti e decapitati, ecumenisti e inseriti benefattori nel mondo mussulmano alla prova di resistenza con i terroristi dogmatici, mentre curano i malati del villaggio e amministrano la quotidiana spiritualità. E’ una ricostruzione chiara, fuori dai santini, a volte avvincente, tra l’ambiguità del potere politico ufficiale e la fragilità delle scelte di dignità e missione. I primi piani di attori eccellenti fissano personalità memorabili. La loro umanità al cospetto dell’intolleranza di setta. Si cita Pascal: «Non si fa mai il male così pienamente come quando si fa per motivi religiosi». Qualche ampiezza narrativa di troppo.

 

POST MORTEM: di Pablo Larrain. Con Alfredo Castro, Antonia Zegers.
Crudele, disperata storia d’amore mentre Pinochet rastrella e uccide diventando dittatore del Cile di Allende. Il titolo funziona a vari livelli: il contesto dell’obitorio, l’apertura della dittatura, il passo freddo e antispettacolare del film, la nota algida nella passione amorosa del protagonista che, dattilografo di necroscopie, solitario e morboso osservatore degli ultimi giorni della democrazia, s’innamora di una giovane vicina di casa, ballerina di varietà, fidanzata di un capo della resistenza. Nell’immagine torbida, quasi onirica, di Larrain («Tony Manero»), si rimettono insieme i pezzi di un passato prossimo sfocato, pendente sul presente.

 

FIGLI DELLE STELLE: di Lucio Pellegrini. Con Fabio Volo, Pierfrancesco Favino.
Misto frutta tra commedia sociale, comico di situazione, farsa di condominio e grottesco politico. Al posto di un ministro, banda di maldestri prende un sottosegretario per aiutare, col riscatto, una vedova. Altri tempi: dopo le Br, i sequestratori sardi, le urla dei talk-show e la benevolente fiction per famiglie, oggi la «banda dei soliti ignoti» invece delle cassaforti scassina fiducia e pazienza. Tra Roma e Cervinia, le buone intenzioni di tutti, anche del rapito, fanno ambulatorio per la benedizione. Si ridacchia per gli attori generosi, da Battiston a Favino, ma sono a servizio. Nessun sospetto di massaggiare il qualunquismo con una sovrana indulgenza? Cuor d’Italia. Presto su Rai2.

 

CATTIVISSIMO ME: di Pierre Coffin. Con Chris Renaud, Sergio Pablos.
Naso adunco, crapa piatta, collo incassato, sciarpetta bicolore da liceale, ironicamente cattivo (spara col fucile congelatore per evitare la fila del fastfood) con una schiera di nanetti somiglianti a palombari stilizzati, Gru vuole rubare la luna per vincere la sfida con uno scienziato che sostituisce i monumenti con improbabili imitazioni. Divertenti le orfanelle che lo aiutano, giusto il messaggio contro il pregiudizio. Incrocio di personaggi di fiabe e racconti, è un’opera di poesia tekno per bimbi. Dicono che Gru provenga dalla celebre silhouette, amorfa e morbosa, di Hitchcock, ma sembra più il pinguino cattivo di «Batman - Il ritorno».

 

FAIR GAME: di Doug Liman. Con Sean Penn, Naomi Watts.
Penn e Watts si buttano convinti nel ruolo di Joe Wilson e Valerie Plame, il diplomatico americano che, nel luglio 2003, ignorato dall’amministrazione Bush, pubblicò sul «New York Times» i risultati negativi della sua inchiesta sull’uranio a Bagdad. Sua moglie, agente Cia, fu spinta allo scoperto per danneggiare il marito, colpevole di dire la verità, come oggi tutti sappiamo. Sembra parlare all’Italia di queste ore la magistrale invettiva finale di Penn-Wilson sulla libertà d’informazione senza la quale menzogne e coperture non potrebbero mai venire a galla. Thriller d’inchiesta che si concede un po’ alla fiction.

 

L'ILLUSIONISTA: di Sylvain Chomet. Animazione.
Tra Londra ed Edimburgo, anni 50/60, mentre il mondo dello spettacolo cambia, dal varietà allo show alla rockband con fan urlanti, un anziano illusionista perde spazio e lavoro ogni giorno. Decide dis eguirlo una giovane serva, convinta che i trucchi siano magia vera. L'illusionista si adeguaanche a questo... Jacques Tati, il dimenticato indimenticabile attore-autore di Monsieur Hulot, tarsfigura nell'animazione morbida, color rosa antico e marrone antiquario, dis ensibile verità, del regista di 2Belleville". da uno script di tati mai realizzato, un omaggio che diventa reinvenzione del suo tocco umoristico poetico. da non perdere.

 

THE TOWN: di Ben Affleck. Con Ben Affleck, Rebecca Hall.
Svaligiatore irlandese di banche, vita difficile nel quartiere criminale di Boston, Doug-Affleck è tra due fuochi: l’amore per la direttrice di banca che ha liberato dopo averla sequestrata e il violento amico d’infanzia che lo tiene inchiodato alla delinquenza, mentre l’Fbi stringe il cerchio. Gia visto? Della città violenta, si fa un ritratto conformista. Come regista (al secondo film), l’attore riesce a dominare la storia secondo giuste convenzioni. Come attore, la sua faccia da bravo romanticone («Shakespeare in Love») ammorbidisce troppo il ruolo, e non gli si crede. Visto il curriculum, meglio come regista che come attore.

 

BURIED: di Rodrigo Cortés. Con Ryan Reynolds.
Thriller della sepoltura, richiama Hitchcock e Tarantino. Un uomo si risveglia nel buio, è ferito, ha un accendino e un telefono, scopre di trovarsi in una bara, tre metri sotto terra. Il conto alla rovescia per la salvezza è allineato al tempo dell’azione. Si tifa per un finale liberatorio, e tuttavia il regista spagnolo, al secondo titolo, trova la soluzione meno convenzionale e più significativa, infilando anche una considerazione morale. A parte un paio di concessioni melodrammatiche, il film risponde alle domande che pone. Un solo attore (Reynolds), più «le voci»... Consigliato ai claustrofobici. Per mettere alla prova la resistenza, tanto è solo un film.

 

WALL STREET: di Oliver Stone. Con Shia LaBeouf, Michael Douglas.
False informazioni. Frazionamenti e distruzioni di aziende. L’avidità. Dopo 22 anni, uscito di prigione, in cerca di rivincita, Gekko dice: «Una volta l’avidità era una cosa buona. Oggi è una cosa legale». Nella tragica scaletta dell’esplosione della bolla degli hedge funds (2007 -2009), questa è una favola di cronaca finanziaria sul ritorno di un padre. Sedicente pentito, è in realtà impenitente ladro, rifiutato dalla figlia pura e dura, fidanzata a un intraprendente agente di borsa... Abile regia di una società del privilegio che sta crollando. Douglas laido e divertente. Ma i personaggi sono un po’ rigidi. Lieta fine, pedaggio obamiano.

 

SOMEWHERE: di Sofia Coppola. Con Stephen Dorff, Elle Fanning.
Un giovane divo di Hollywood, perduto in un limbo di vacuità, tra libertinaggio e inappartenenza scopre nel rapporto con la figlia la via per depurarsi e ricominciare. A un’amica confessa: «Sono una nullità». E lei: «Perchè non fai volontariato?». Così abbandona la Ferrari in una strada deserta e cammina verso una nuova coscienza... La Coppola prende le misure ad Antonioni, controlla i tempi e muove il carrello «come un autore», ma il suo film è un compitino sull’alienazione e il bisogno di autenticità. Illusa dal senso di colpa di dell’ex fidanzato Tarantino che l’ha premiata a Venezia.

 

MANGIA, PREGA, AMA: di Ryan Myer. Con Julia Roberts, James Franco.
 La Roberts in viaggio d’affari (di cuore). Da un bestseller che abbiamo la fortuna di non aver letto (di Elizabeth Gilbert), un film turistico spirituale d’esotica idiozia con gli spaghetti rossi in Piazza Navona, la pizza a Napoli, la grande famiglia nel casolare toscano, la meditazione a Calcutta, la ricerca del saggio Ketuk in Indonesia, e il bagno nuda nel mare d’oriente che riporta l’amore, sudamericano (Bardem), con bossa e cocktail. Divorziata newyorkese colta disillusa bella presenza insoddisfatta emotivamente cerca se stessa. Dove? A Roma, in India, a Bali. Nell’ordine, mangia, prega, ama. Potrebbe diventare un cult.

 

BENVENUTI AL SUD: di Luca Miniero. Con Claudio Bisio, Alessandro Siani.
Nebbia padana e sole campano, stracchino puzzolente e bufala alla goccia, milanés e terùn, coraggio, prendiamoci per mano che l’Italia televisiva non è poi così divisa. Il lombardissimo direttore di sede postale Bisio viene trasferito a Castellabate, Salerno. Qui scopre che i meridionali non sono (siamo) camorristi, ma mammoni, lavorano anche loro (noi), sono (siamo) puliti generosi e onesti... Adattamento di «Giù al Nord», campione d’incassi francese, cattura per il cast, delude per la farsa, irrita per la colpevole banalità, illude per le buone intenzioni. Innocuo, come un piatto di spaghetti al pomodoro, è destinato al successo come la pizza qualunque. Buon appetito.

 

LONDON RIVER: di Rachid Bouchareb. Con Brenda Blethlyn, Sotigui Kouiaté, Roschdy Zem.
Lei, cattolica, sospettosa provinciale che si getta a Londra a cercare la figlia studentessa che non risponde al telefono dopo le bombe dell’attentato. Lui, musulmano, senegalese, operatore forestale in Francia, fa la stessa cosa per il figlio. Il destino dei due figli, fidanzati di religione diversa, li avvicina e li unisce, tra diffidenza e calibrati contatti. Un film che coinvolge con una sorta di realismo pilotato interamente dalle emozioni degli attori, la Brenda Blethyn di «Segreti e bugie» e lo straordinario attore-musicista africano Sotigui Kouyaté. Dirige l’ottimo attore franco-algerino Bouchareb.

 

SHREK E VISSERO FELICI E CONTENTI - 3D: di Mike Mitchell. Animazione, 3D.
Vedrete lo scarafone balzare in sala, gli occhi languidi ipocriti del Gatto con gli stivali sulle spalle del vicino di poltroncina, il Ciuchino in groppa al pubblico. Schrek in 3D. Ma è divertente? Coinvolge? Nì. La formula funziona ancora per merito dei personaggi, ma sparisce la decostruzione delle fiabe. Qualche segno di stanchezza era già in conto nel terzo. Qui gli sceneggiatori hanno tentato l’impossibile, e si vede: l’orco più puzzolente della terra è sottratto alla tranquilla vita familiare e immesso in un mondo che non lo riconosce più. Incubo dell’identità, soluzione facile, gag a volte vivaci, edizione strumentale.

 

LA PASSIONE: di Carlo Mazzacurati. Con Silvio Orlando, Giuseppe Battiston.
Dall’autore di «A cavallo della tigre», un’altra commedia grottesca sull’arte e i nostri tempi. Nel destino del regista Gianni Dubois (Orlando), in attesa ormai quinquennale d’ispirazione, c’è la rocambolesca direzione di una passione di Cristo itinerante... Il finale, con il Cristo-Battison bloccato sulla croce, vale il biglietto, suscitando un emozionante corto circuito tra sacrificio, ispirazione, arte, corruzione culturale. E’ un film originale, spiazzante, rischioso, sbilanciato, che non riesce a nascondere sia la fragilità del racconto sia la sua urgenza autoriale. Aria fresca, però, nel pozzo del cinema italiano.

 

INCEPTION: di Chrisopher Lohan. Con Leonardo Di Caprio, Joseph Gordon Levitt. Mazzacurati.
Detective del subconscio, con una valigetta di sonniferi Di Caprio collega la sua squadra ed entra nei sogni dell’erede di una multinazionale per installare l’idea della scissione dell’azienda. Superato lo scoglio della credulità, è evidente che, per Nolan («Memento») il mondo dei sogni è una galleria di schegge ricomponibili di film di genere (thriller, melò, commando movie, spionaggio, fantascienza, tra «007» e «Matrix»), dove s’insegue sempre, si spara senza sosta, si trasmigra nelle cronologie, si scende in sogni-di-sogni. Il tema del film è meno la storia, che non tiene, e più il tempo e lo spazio del cinema, che lo spettatore viene chiamato a interrogare violentemente. Riuscito a metà.

 

NIENTE PAURA: di Piergiorgio Gay. Con Luciano Ligabue.
Una vita da mediano, canta il Liga, ma cercando il centro di gravità permanente civico della nazione, con le parole di Margherita Hack e Silvio Soldini, Paolo Rossi e Fabio Volo, Verdone e Umberto Veronesi, con i reperti di Borsellino e certe icone delle lotte democratiche del dopoguerra. Sembra una galleria di bravi progressisti, ma diventa un collage di idee e speranze in risonanza con i pezzi della carriera di Ligabue. Che fa la dedica: «a tutti quelli che vivono in questo Paese ma che non si sentono in affitto, perché questo Paese è di chi lo abita e non di chi lo governa». Attivante, forse un po’ conciliante.

 

LA PECORA NERA: di Ascanio Celestini. Con Celestini, Giorgio Tirabassi, Maya Sansa.
Scolaro sensibile e immaginoso delle baracche romane, internato nei primi ’70 (prima della legge Basaglia) per non rivelare il delitto dei suoi fratelli, dopo 35 anni Nicola un po’ matto è proprio riuscito a diventarlo. La paura ha fatto il suo corso. E poi sua madre c’è morta in quel posto... Ricostruzione di un’incredibile storia vera (alla fine, il vero Nicola fissa il vuoto), richiama la santità laica del matto sempiterno e la società come clinica, con la sua indomabile vocazione all’apartheid delle anime. Ottimo cast, spicca Celestini, a cui si deve però un irrisolto equilibrio tra la fiction del visivo e l’affabulazione in voce over.

 

LA SOLITUDINE DEI NUMERI PRIMI: di Saverio Costanzo. Con Alba Rohrwacher, Luca Marinelli.
Dal romanzo d’esordio di Paolo Giordano acquistato da due milioni di italiani e venduto dagli Stati Uniti alla Corea. Del danno e del dolore che avvincono Alice e Matteo come i sopravvissuti di un disastro, già a rischio d’artificio nel libro di Giordano, Costanzo e i suoi attori riescono a incarnare una «scena» coinvolgente. E qui sembra meglio del romanzo. Ma nella giusta scelta cinematografica di fondere i piani temporali cronologici delle pagine (dal 1982, l’incidente di Alice, al 2007, il ritorno di Matteo dalla Germania), Costanzo finisce per creare un legame enfatico tra i due personaggi. E qui è peggio del romanzo. Confuso, a volte emozionante.

 

THE HORDE: di Yannick Dahan, Benjamin Rocher. Con Eriq Ebouaney, Aurélien Recoing.
Poliziesco di banlieue, horror di morti viventi, tra fumetto e videogico. Opera d’esordio dei francesi Dahan-Rocher, cresciuti succhiando latte di celluloide da Carpenter e Romero, cerca la sua strada imitando Rodriguez in tonalità grigio cupo, pensandosi come operazione molto postmoderna. Se non avete capito niente di questi cosiddetti «referenti culturali», no problem. Ci sono dei poliziotti che, entrati in un palazzo per vendicare un collega, si battono e poi si alleano con dei delinquenti per sopravvivere all’attaco degli zombie. Muoiono tutti. Più o meno.