Togliere la vita deve avere un prezzo: "Chi ha vissuto il dramma capisce"

Milano, i familiari delle vittime si sono riuniti davanti alla Prefettura di Nicola Palma

Il presidio davanti alla Prefettura

Il presidio davanti alla Prefettura

MIlano, 25 marzo 2015 - Si tengono le mani. Si sostengono. Si guardano negli occhi. Sono tutti stretti dietro uno striscione bianco con una scritta blu: «Reato di omicidio stradale adesso!!!». Nessuno di loro, fino a qualche anno fa o solamente fino a pochi mesi fa, avrebbe mai pensato di essere qui in piazza. E neppure avrebbe mai voluto. Perché far parte delle associazioni dei familiari di vittime della strada vuol dire aver perso un padre, una madre, un figlio, un fratello, una sorella, un nipote. «Quando ti succede, capisci che solo chi ha vissuto questo dramma può comprendere quello che provi», spiega con voce calma Donato De Nicola. Lui, giusto un anno fa, ha dovuto fare i conti con la morte del figlio Alessandro: 21 anni, falciato da un’auto mentre pedalava in bici tra Gorgonzola e Melzo. «L’uomo che l’ha investito – ti dicono Donato e la moglie Laura Villa – ha cercato un contatto con noi, ma per ora ci siamo sempre rifiutati: ci vedremo in Tribunale». Già, il Tribunale. E una legge «che non è affatto giusta», urla con forza Arianna Capolino, sorella di Angelo, ucciso il 31 agosto 2014 «da due ubriachi in moto».

Ed è proprio per cambiare quella legge che ieri pomeriggio alle 17 Donato, Laura, Arianna e tanti altri si sono ritrovati in corso Monforte, a due passi dal Palazzo della Prefettura di Milano, per chiedere l’introduzione del reato di omicidio stradale. Manifestazione gemella di quelle organizzate in 23 città italiane per spingere Governo e Parlamento a trasformare in norma quello che da anni si sente ripetere a parole da destra e sinistra. Manifestazione già fissata prima che Elio, 14 anni, si unisse alla tragica lista domenica mattina a Monza: «Siamo qui anche per lui e per la sua famiglia: sappiamo cosa stanno provando in questo momento». Loro lo sanno sì, e faticano a spiegarlo a chi non ci è mai passato: «Io ho perso mio padre Giovanni – racconta Stefania –. Eravamo fermi in coda in tangenziale quando un furgone ha travolto l’auto che ci stava dietro». Un urto così violento da innescare un tamponamento a catena di sette vetture: Giovanni non ce l’ha fatta, «nonostante abbia lottato come un leone». E sua figlia non si dà pace, anche perché il conducente del mezzo era senza patente: «Quando ci si mette al volante bisogna sapere quello che si fa ed essere lucidi, altrimenti si va in giro con un’arma che può ammazzare».

La stessa «arma» che ha colpito senza scampo il quindicenne Andrea De Nando a Peschiera Borromeo il 29 gennaio 2011. «Colui che gli ha tolto la vita – afferma la mamma Elisabetta Cipollone, diventata ormai punto di riferimento per tanti genitori – è stato condannato in via definitiva a 3 anni e 8 mesi a settembre, anche se a dicembre l’ho già rivisto fuori». Come se non bastasse, solo in Cassazione ci si è resi conto che «nessuno aveva mai pensato di togliergli la patente». Ci sarà bisogno di un nuovo processo. «Non deve più accadere, siamo davanti a un’emergenza sociale – si sfoga Elisabetta –. Noi chiediamo la certezza della pena, per quanto esigua, fino a quando non verrà introdotto il reato di omicidio stradale». Perché «la vita umana ha un prezzo enorme, e se qualcuno te la toglie dovrà pur pagarlo fino in fondo: oggi non è così, continueremo a batterci per cambiare le cose».

nicola.palma@ilgiorno.net

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