Pacemaker mandò donna in coma: condannata la società importatrice

Due dirigenti dovranno pagare un milione di euro alla famiglia di Mario Consani

Un corteo  di solidarietà  per Maria Spina

Un corteo di solidarietà per Maria Spina

Milano, 11 marzo 2015 - Il pacemaker era difettoso, condannati per lesioni colpose gravissime due manager della ditta importatrice. I quali inoltre, insieme alla loro azienda, dovranno versare subito alle parti lese quasi un milione di euro a titolo di anticipo sul risarcimento danni. È una sentenza a suo modo storica, quella pronunciata ieri pomeriggio dal giudice Manuela Cannavale. Da più di quattro anni Maria Spina, una 46enne di San Donato Milanese, vive in stato vegetativo permanente senza alcuna relazione con il mondo esterno. A ridurla così è stato il malfunzionamento di un defibrillatore che portava addosso. Ieri, nell’aula del processo che vedeva sul banco degli imputati due dirigenti della St. Jude Medical Italia di Agrate, l’azienda che importa e distribuisce lo strumento di fabbricazione americana, sono arrivate le condanne come chiesto dal pm Alberto Dones, vice procuratore onorario.

Dal punto di vista pratico, una sanzione molto lieve: 2mila euro di multa a testa. Ma il principio generale affermato dal tribunale è importante: anche i produttori e non solo i medici rispondono, eventualmente, dei danni procurati ai pazienti dai meccanismi che dovrebbero invece aiutarli a vivere meglio. Solo le motivazioni della sentenza potranno aiutare a capire. Ma nel dramma capitato a Maria, la stessa casa madre californiana aveva disposto il “richiamo” dei cardioverter degli stessi tipo e serie di quello portato dalla donna, perché senza un aggiornamento del software c’era il rischio di un cattivo funzionamento. Aggiornamento che, evidentemente, il giudice deve aver ritenuto non eseguito.

Dopo l'applicazione del pacemaker a causa dei suoi problemi cardiaci nel 2008, Maria passò di crisi in crisi fino a quella fatale, la notte del 19 ottobre 2010, mentre era a casa sua, a San Donato. Quella volta, stando all’accusa, quando la donna ebbe un arresto cardiocircolatorio la macchinetta non entrò in funzione per colpa di un black-out elettrico, «contribuendo in questo modo a causare nella viva lo stato di coma vegetativo per via della mancata defibrillazione del sistema».«L’inemendabile dolore della famiglia di Maria, orfana della vita e della morte – commentano i legali di parte civile, Marcello Gentili e Nicola Brigida – ha comunque trovato il conforto di un giudice e di un pubblico ministero che nonostante i mezzi di una potente multinazionale hanno fatto prevalere verità, razionalità e forza delle prove».

mario.consani@ilgiorno.net

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