Ridotta in stato vegetativo da un pacemaker difettoso: a processo due manager

Maria oggi ha 46 anni ma non lo sa. Dall’ottobre del 2010 vive in stato vegetativo permanente, priva di coscienza e senza alcuna relazione con il mondo esterno. Soffriva di cuore, all’epoca, ma a ridurla in queste condizioni, secondo la Procura, sarebbe stato il malfunzionamento di un pacemake-difettosor-defibrillatore che portava addosso di Mario Consani

L’installazione di un pacemaker

L’installazione di un pacemaker

Milano, 21 ottobre 2014 - Maria oggi ha 46 anni ma non lo sa. Dall’ottobre del 2010 vive in stato vegetativo permanente, priva di coscienza e senza alcuna relazione con il mondo esterno. Soffriva di cuore, all’epoca, ma a ridurla in queste condizioni, secondo la Procura, sarebbe stato il malfunzionamento di un pacemaker-defibrillatore che portava addosso. Un dispositivo di fabbricazione americana, di una serie che tempo prima era stata «espressamente segnalata dal Ministero della Salute come a rischio difetto» e colpita anche da «provvedimento interdittivo dell’immissione in commercio». Una misura temporanea, però. Poi, chissà perché, quel tipo di strumento era tornato in circolazione ed era stato di nuovo utilizzato dai medici. Ora però, Gianluca I. e Angelo R., amministratori delegati della St. Jude Medical Italia di Agrate – la ditta importatrice dello strumento prodotto dalla casa madre in California – devono difendersi davanti al giudice Manuela Cannavale, quinta sezione del tribunale, dall’accusa di aver provocato a Maria lesioni personali gravissime.

Si chiama «Cardioverter Atlas Plus codice DR-V243», ed era stato impiantato alla donna nel febbraio 2008. Duplice funzione di regolatore della frequenza e di defibrillatore in caso di tachicardia, avrebbe dovuto consentirle una vita normale. «Da quel momento invece – racconta l’avvocato Nicola Brigida, legale della famiglia insieme al collega Marcello Gentili – iniziò per Maria un vero e proprio stillicidio di ricoveri ospedalieri». Era evidente che qualcosa non andasse per il verso giusto. Eppure i sanitari che avevano in cura la donna all’ospedale di Melegnano non collegarono quelle difficoltà al funzionamento dello strumento. E i consulenti tecnici del pubblico ministero Ferdinando Esposito non hanno attribuito loro alcuna responsabilità, tanto che i medici non sono stati nemmeno indagati. Una scelta che non ha convinto i legali di parte civile: «È controverso che il dispositivo dovesse essere sostituito prima – aggiunge l’avvocato Brigida – ma almeno un serio allarme sarebbe dovuto scattare, visto anche che, come poi è emerso, risultavano 5 o 6 segnalazioni di disfunzionalità di quello strumento cardiaco, tanto che il ministero della Salute ne aveva temporaneamente sospeso l’utilizzo».

Fatto sta, invece, che Maria continuò a portarsi addosso il Cardioverter. E passò di crisi in crisi fino a quella fatale, la notte del 19 ottobre 2010 mentre era a casa sua, a Melegnano. Quella volta, stando all’accusa da cui i manager St. Jude devono difendersi, quando Maria ebbe un arresto cardiocircolatorio la macchinetta non entrò in funzione per colpa di un black-out elettrico, «contribuendo in questo modo a causare nella viva lo stato di coma vegetativo per via della mancata defibrillazione del sistema». Un malfunzionamento negato dai vertici della St. Jude Italia, ma confermato, agli atti, non solo dal marito della poveretta, che non la vide sobbalzare come avviene in questi casi quando parte la scarica elettrica che sollecita il cuore, ma anche dai sanitari dell’elisoccorso che intervenne di lì a poco e dalla firma del primario di cardiologia dell’ospedale che accolse Maria quando ormai era troppo tardi, e che sulla cartella clinica della paziente appuntò che il defibrillatore “esterno” usato dai sanitari del 118 aveva fatto regredire la tachicardia. A riprova che quello “interno”, evidentemente, non era proprio entrato in funzione.

mario.consani@ilgiorno.net

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