Moni Ovadia: "La Milano che ho nel cuore? Quella dei maestri, dagli artisti agli operai"

Lo scrittore e attore poliedrico si racconta di MASSIMILIANO CHIAVARONE

Moni Ovadia

Moni Ovadia

Milano, 29 novembre 2015 - «La mia Milano del cuore? Quella dei maestri che ho incontrato: dagli artisti agli operai». Lo racconta il regista e scrittore Moni Ovadia.

Ci cita un maestro per cominciare?

«Il mio insegnante di chitarra classica, Miguel Abloniz. Andai a lezione dai lui dai 12 ai 19 anni. Mi parlava anche di letteratura. Mi fece conoscere James Joyce e il flusso di coscienza. In realtà era greco, forse si chiamava Mikail Hablonitis, ma si faceva passare per spagnolo. Era la fine gli anni ’50. A quell’epoca abitavamo in via Foppa in un piccolo appartamento di 45 mq. Io e mio fratello Sami dormivamo nel soggiorno».

A Milano quando è arrivato?

«Sono nato in Bulgaria. Mio padre era un commerciante. Con lui, mia madre e Sami ci trasferimmo qui alla fine del 1949. La prima sistemazione fu in una stanza di un albergo in via Ariosto, la Pensione Branca. L’elettricità era razionata. Bastava accendere un fornelletto per far saltare le valvole e scatenare le ire degli altri. Ma avevamo fame. Mia madre scaldò qualcosa, la luce saltò, ma io anticipando tutti, balzai fuori dalla stanza urlando e insultando chiunque. Tutti scoppiarono a ridere. Evitammo le rampogne e io misi a segno il mio primo coup de théâtre a tre anni e mezzo». 

Quale altro quartiere ha conosciuto da piccolo?

«La vecchia Fiera. Abitavamo in piazza Giulio Cesare al 19. Dividevamo la casa con mio zio Salomone. Ci trascorsi la mia infanzia. Milano mi sembrava piccola, quieta, rassicurante. La fontana della piazza era piena di pesci rossi che catturavo. Nelle sere d’estate vedevo spesso le lucciole. Passavano poche auto.  Con i miei compagni giocavamo ai tollini, cioè una specie di corsa ad ostacoli usando i tappi della spuma invece delle biglie. Disegnavamo col gesso di vari colori le piste sulla strada. Niente ci disturbava. Passava una macchina ogni mezz’ora. Ho trascorso ore serene».

E poi ad apertura di un nuovo atto della sua storia a Milano sono entrati in scena altri maestri?

«Sì, avevo cominciato ad esibirmi con un gruppo di amici cantando le canzoni di protesta sociale dei cow boys. Verso i 14 anni il mio insegnate di ginnastica Loris Rosenholz mi fece avvicinare alla musica tradizionale delle varie parti del mondo. Aveva una discoteca enorme e mi fece ascoltare di tutto. Poi la moglie di un altro insegnante, Hana Roth, cantante e attrice mi ha fatto conoscere il repertorio yiddish. A 17 anni il mio incontro con il formidabile Roberto Leydi, l’etnomusicologo milanese che ha recuperato tanto di quel repertorio della tradizione. Mi invitò a fare parte del gruppo “Almanacco popolare d’Italia” che si dedicava alla riscoperta dei canti dell’Italia settentrionale».

Poi fondò i suoi gruppi?

«Sì, prima il “Folk Internazionale” e poi l’ “Ensemble Havadià”. Importanti anche le collaborazioni con il Crt e il Franco Parenti dove c’è stato il debutto milanese di “Oylem Goylem”, lo spettacolo che è stata la mia consacrazione. Proprio a Milano ho creato la yiddishkeit, la cosiddetta yiddishità, cercando di dare un futuro al mondo yiddish che si stava perdendo. Stimolo era stato anche l’incontro con un rabbino di una sinagoga khassidica creata in un appartamento al secondo piano dello stabile dove si trova il teatro Carcano. Sono così grato ai milanesi che mi hanno sempre seguito e hanno riempito le sale dei miei spettacoli».

I “suoi” maestri milanesi del passato?

«Carlo Porta, dalle sue opere emerge il milanese autentico, sanguigno, pieno di umori e di energia, di una volgarità iperbolica, ma sempre umana. Sono questi i milanesi veri, diversi dal popolo tratteggiato dal Manzoni, più passivo, più letterario. Per me Porta è uno dei grandi poeti italiani e Milano dovrebbe fare di più per ricnoscere ai proprio talenti. Come, per esempio, dare anche un teatro a Dario Fo».

La via milanese che preferisce?

«La via Savona. Ci vivo da anni. Questa strada racchiude la storia della città, della Milano proletaria, civile, operaia. Il paesaggio urbano che si gode da qui è bellissimo. Qui c’erano l’Ansaldo e la Riva Calzoni. Io stesso vivo in una casa che era un’ex spazio industriale. E stando in via Savona ho imparato il dialetto milanese».

di MASSIMILIANO CHIAVARONE

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