Jerry Calà: "A Milano ho imparato tutto. La mia città ha il sapore della michetta appena sfornata"

“Per me Milano ha il sapore della michetta che mi toglieva dalla bocca il sapore delle tante Golia trangugiate con i miei amici “Gatti” a Roma per soffocare i morsi della fame” di Massimiliano Chiavarone

Jerry Calà a Milano

Jerry Calà a Milano

Milano, 31 gennaio 2015 - “Per me Milano ha il sapore della michetta appena sfornata che mi toglieva dalla bocca il sapore delle tante Golia trangugiate con i miei amici “Gatti” a Roma per soffocare i morsi della fame”. Lo racconta Jerry Calà.

Ma lei non è nato a Catania? Sì, ma a 5-6 anni ero già a Milano. Ci eravamo trasferiti qui, perché mio padre che era interprete delle Ferrovie dello Stato, vinse un concorso e fu assegnato all’Ufficio informazioni della Stazione Centrale. In questa città cominciai col piede giusto, a partire dalla casa in cui andammo ad abitare, con un bel cortile all’interno del palazzo.

Questo entusiasmo si collega alla via milanese che le è rimasta nel cuore? Sì, è via dei Transiti 24, questo fu il mio primo indirizzo. Era un quartiere nuovo allora, vicino viale Monza. Alle due del pomeriggio la nostra casa si riempiva di bambini perché mia madre faceva il doposcuola. Io studiavo insieme agli altri. C’era tanta allegria. Poi alle quattro tutti giù in cortile a giocare fino alle 19. L’atmosfera era molto serena. Io e mia sorella andavamo mano nella mano a scuola senza bisogno che gli adulti ci accompagnassero.

Allora il quartiere non era multietnico? No, gli stranieri eravamo noi che venivamo dalla Sicilia o da altre regioni del Sud. Quando siamo arrivati c’erano ancora i cartelli sui portoni che indicavano il rifiuto di affittare ai meridionali. Io, in realtà, mi chiamo Calogero e quando all’appello arrivava il mio turno con “Calà Calogero”, tutti scoppiavano a ridere. Poi i compagni per simpatia cominciarono a chiamarmi Jerry anche perché facevo ridere come Jerry Lewis. Alcuni nascondevano le proprie origini per essere accettati. Ma io no. Lo scrissi in un tema alle elementari e per questo fui anche premiato.

Ma poi vi trasferiste a Verona? Sì, perché mio padre fu nominato responsabile dell’Ufficio Informazioni della stazione di Verona Porta Nuova. Lasciare Milano fu un dramma. Avevo 13 anni. A Verona ci rimasi circa sette anni. Lì incontrai Umberto Smaila e gli altri e formammo i “Gatti di Vicolo Miracoli”. A Verona nacque il sogno, ma che realizzai a Milano.

Di nuovo nel capoluogo lombardo? Sì. Era il 1971. Andammo ad abitare con i “Gatti”, dopo una serie di traslochi, in via Privata dei Cybo cioè a 600 metri da via dei Transiti. Milano era fantastica. Furoreggiava il cabaret, i Navigli pullulavano di locali dove ci si esibiva e si faceva musica dal vivo. C’era l’austerity, cioè il proibizionismo italiano, e noi ci ritiravamo nelle cantine di nascosto a fare bisboccia. Tutto quello che so del mio lavoro, l’ho imparato a Milano.

Chi l’ha ispirata? I Gufi, quella fantastica formazione Svampa-Patruno-Brivio-Magni, da loro ho imparato a mescolare la musica popolare e le battute. E poi Cochi, Renato e Jannacci.

Lei è anche il re dei tormentoni: Libidine, Capitooo, Non sono bello piaccio. Da dove ha preso ispirazione? Dalla vita notturna milanese. “Libidine” l’ho ascoltato di sicuro per strada a Milano. Era da milanese verace. Altre espressioni le rubavo dalla mala milanese che in quel periodo ci capitava di incrociare, per esempio se qualcuno di loro veniva a vederci. “Capitooo”, nacque con Umberto Smaila che in scena mi ripeteva capito e allora io sbottai con una tripla dose di Capitoooo!

E poi il cinema ha fatto irruzione nella sua vita. Sì, soprattutto quando intrapresi la carriera da solo. Erano i primi anni ’80 conquistai le classifiche con ben due titoli “Yuppies” e “Il ragazzo del Pony Express”. Ho girato la maggior parte dei miei film a Milano.  Dicevano che facevo solo pellicole disimpegnate ma ho anche vinto il premio della Critica italiana a Berlino per “Diario di un vizio” di Marco Ferreri.

Negli ultimi tempi, invece, si dà al teatro ed è di nuovo in scena al Teatro Nuovo il 9 febbraio con “Non Sono Bello…Piaccio!”. Torno per sentire il grande affetto di questa città. E’ un one-man-show con orchestra in cui ripercorro i miei 44 anni di carriera tra scena e musica. Dopo tanto cinema pensavo di non essere più capace di stare su un palcoscenico e invece sono tornato alle origini collegandomi a quello che ho imparato a Milano sul teatro-canzone. Con le colonne sonore dei miei film oltre che con tutto il resto abbiamo segnato un’epoca, quella degli anni ’80. Periodo ora visto con distacco, invece, c’era energia da vendere, la stessa che avevamo noi “Gatti” che ci spingeva a insistere.

Nessun rimpianto? No. I miei film vanno ancora forte in tv. Lavoro come un matto. Per me è importante avere una sala sempre piena di gente da intrattenere e divertire. Non è ancora finita…Uèèèè stiamo calmi!

di Massimiliano Chiavarone [email protected]