Paolo Beldì: "Giorgio Gaber, Celentano e perfino l’elefante dello zoo. Milano è la città dei miei idoli"

«Milano è la città dei miei miti. Peccato che non sono diventato milanista o interista, sarebbe stato tutto più comodo» di Massimiliano Chiavarone

Paolo Beldì

Paolo Beldì

Milano, 26 aprile 2015 -  «Milano è la città dei miei miti. Peccato che non sono diventato milanista o interista, sarebbe stato tutto più comodo». Lo racconta il regista Paolo Beldì.

Lo sanno anche i sassi che lei è uno sfegatato tifoso della Fiorentina. Quando, invece, ha cominciato a tifare per la città di Milano? «A sei anni, destinazione lo zoo dei Giardini pubblici di Porta Venezia. C’era un elefante che indovinava i numeri. Questa attrazione mi compensava della noia che accumulavo ogni volta che mio padre Aldo mi portava alla Fiera per alcuni eventi, lui faceva il pubblicitario. Non vedevo l’ora di tornare a casa, a Novara».

E quindi lo piantava in asso e andava via? «Magari, ma ero troppo piccolo. Però mio padre mi portava in centro dove c’era un fantastico negozio di soldatini da collezione. Diventato adulto diressi tutte le mie attenzioni a uno dei miei miti, Adriano Celentano e mi iscrissi a Filosofia alla Statale».

Ora mi deve spiegare qual è il legame tra i due. «Perché la sede del Clan di Celentano allora era nei pressi di via Festa del Perdono, dove si trova l’Università. Per me fu automatico iscrivermi a un corso per giustificare i miei frequenti viaggi a Milano. Tornavo a Novara sempre con un nuovo disco di Adriano e mia madre mi chiedeva come mai non mi vedesse mai con un libro. Diedi solo quattro esami. Una volta dovevo dare l’esame di Filosofia della storia e invece comprai il testo di Storia della filosofia».

Perché non provare a fare il comico, avrà pensato. «E infatti, tra i 20 e i 25 anni facevo il comico a Radio Azzurra di Novara. Ma ero anche pubblicitario, seguendo le orme di papà. Mi feci notare perché firmavo i contratti come “il figlio scemo del Signor Beldì”. Uno di questi documenti finì tra le mani di Beppe Recchia che aveva rapporti di lavoro con mio padre e gli disse che voleva conoscermi».

E così cambiò la sua vita. «Sì, infatti dico sempre che faccio il regista “da un’idea di Beppe Recchia”. Cominciai a frequentare la casa di Beppe a Milano, dalle parti della vecchia Fiera. Erano i primi anni ’80. Lui per me era già un idolo perché aveva firmato la regia di “Televacca” con Benigni e “Il poeta e il contadino” con Cochi e Renato. In un colpo solo mi ero trovato nell’Olimpo tra i miei dei, ma non era finita: la più grande emozione fu quando Recchia mi chiese di fargli da aiuto».

Quando firmò la sua prima regia tv? «L’esordio nazionale nel 1987 con il varietà “Lupo solitario” su Italia 1. Prima avevo fatto la gavetta ad Antenna 3 con Recchia. In seguito passai a Canale 5, conobbi Antonio Ricci e con Roberto Negri composi le musiche del “Drive In”. Fu proprio Ricci che mi fece debuttare nella regia dei varietà. Poi feci anche la regia di “Matrjoska” che sancì l’apparizione di Moana Pozzi nuda in tv. Ma Berlusconi ci tagliò il programma. E allora andammo in onda con “L’araba fenice”».

La strada milanese che preferisce? «Via Londonio. Per inciso al civico 28 nacque, sempre per parlare di miti, Giorgio Gaber. Ci andavo spesso nel mio periodo in Rai dove avevo esordito con “Mi manda Lubrano” nel 1990. Anni prima conobbi Gaber di persona a Novara. Ero ventenne e gli feci un’intervista. Ricordo ancora la prima domanda: “Come nasce artisticamente Giorgio Gaber?”. Era autoironico, autocritico, ha anticipato i tempi, scardinando le certezze delle ideologie con dubbi e critiche».

Ha mai incontrato Gaber in via Londonio? «No, ma feci una bellissima scoperta. Il ristorante Da Silvano che è ancora nella via. Per giunta il titolare di allora, Silvano, era un tifoso della Fiorentina. In quel posto ho incontrato tanti personaggi della Rai e proprio lì con Cochi e Renato abbiamo scritto il canovaccio di “Stiamo lavorando per noi” a cui partecipò Enzo Jannacci. La via Londonio è la strada milanese dei miei idoli. La frequentavo tutti i giorni durante il periodo di lavoro con Fabio Fazio. Ma su una cosa mi mordo ancora le mani».

Su sputi il rospo. «Ho rischiato di lavorare con Gaber. Ma non ci sono riuscito. Erano gli anni ’90, avrei dovuto fare le riprese di un suo spettacolo a Milano più altri progetti per Tele + ma poi dovetti rinunciare perché mi chiamò Rai 3 per un nuovo programma. E’ il più grande rimpianto della mia vita».

di Massimiliano Chiavarone mchiavarone@yahoo.it

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