Mercoledì 24 Aprile 2024

Massimo Ranieri: "La prima volta in Duomo come Totò e Peppino. Ma qui sono diventato attore"

“Milano per me è la città della doppia svolta. La prima in cui mi sentivo come Totò e Peppino, la seconda invece in cui ho raggiunto la mia consacrazione di attore”. Lo racconta Massimo Ranieri a Milano per interpretare Riccardo III di Shakespeare al Teatro Nuovo. di Massimiliano Chiavarone

Massimo Ranieri

Massimo Ranieri

Milano, 24 gennaio 2015 -  “Milano per me è la città della doppia svolta. La prima in cui mi sentivo come Totò e Peppino, la seconda invece in cui ho raggiunto la mia consacrazione di attore”. Lo racconta Massimo Ranieri a Milano per interpretare Riccardo III di Shakespeare al Teatro Nuovo.

E’ arrivato bardato con colbacco e cappottone anche se c’era caldo come nella famosa pellicola di Camillo Mastrocinque del 1956? Sì, in senso metaforico. Mi sentivo disorientato. Tante cose nuove messe insieme. Era l’autunno 1975 e arrivai a Milano per interpretare Napoli chi resta chi parte di Raffaele Viviani con la regia di Giuseppe Patroni Griffi. Avevo debuttato in teatro con quel titolo l’estate dello stesso anno a Spoleto e la tappa milanese era la prima della tournée, dunque il primo vero e proprio confronto con un pubblico in una città che è l’emblema del teatro in Italia. Per giunta era la prima volta che soggiornavo a Milano.

Però era già un cantante affermato e anche attore al cinema con Bolognini premiato da un David. Sì, ma Peppino Patroni Griffi credette in me come attore e non solo come volto cinematografico.  E mi convinse ad accettare la sfida teatrale. Per giunta con un testo come quello di Viviani, dal napoletano così stretto, arcaico e zeppo di neologismi che noi stessi napoletani faticavamo a capire. Il debutto milanese non riscosse un grande successo di pubblico anche se fu molto elogiato dalla critica.

E come fu l’impatto con la città? Mi viene ancora da ridere, perché quando passeggiai la prima volta in Piazza Duomo mi sentivo proprio come Totò e Peppino in quella leggendaria scena in cui si inventano tutti i linguaggi possibili per parlare con il vigile urbano solo perché milanese. Sentivo che ero in una città europea, i cui ritmi erano scanditi dalla produzione e dal lavoro. Facevo vita ritirata, perché l’impegno nel ruolo di Viviani era stressante, in scena dovevo interpretare sette personaggi. Uscivo il pomeriggio per passeggiare, prendere confidenza con la città e bere un tè con i biscotti. Qualche anno dopo invece la mia vita milanese diventò più movimentata.

Che vuol dire? La svolta vera e propria nel 1980 quando mi chiamò Giorgio Strehler per interpretare l’aviatore Yang Sun nell’ Anima buona di Sezuan di Brecht. A segnalarmi al grande regista che cercava un attore che sapesse anche cantare e ballare fu Rosanna Purchia, attuale Sovrintendente del San Carlo. Io accettai senza neanche leggere la parte. Provammo 4 mesi e mezzo prima di debuttare. A Milano recitammo al teatro Lirico perché lo spettacolo richiedeva molto spazio. La mia vita professionale cambiò. Sotto la guida di Strehler ero diventato un vero attore. Lo spettacolo ebbe molto successo. La consacrazione poi avvenne circa dieci anni dopo con L’isola degli schiavi di Marivaux, in cui Strehler volle che interpretassi Arlecchino.

Ma aveva modo di vivere a Milano? Certo. In pianta stabile ci avrò vissuto circa due anni. Un periodo scritto a lettere d’oro nella mia testa e anche nel mio cuore. Infatti qui ho anche vissuto due belle storie d’amore, una in particolare più lunga anche se poi sono stato lasciato. Poi cominciai a girare di più la sera. Milano era una città supernotturna, facevo spesso le 4 del mattino uscendo a cena con i colleghi dopo lo spettacolo e poi andando ad ascoltare musica oppure girovagando per la città.

La sua via preferita? Via Rovello. In quella via ci ho vissuto tre mesi per le prove della commedia di Marivaux al Piccolo. Posso dire che un pezzo della mia pelle è attaccato su uno dei muri di quella strada. Scherzo, naturalmente, ma data l’intensità delle prove, quasi dormivo in una brandina per strada per ritornare più presto in teatro. Un giorno Strehler ci costrinse a provare per sette ore solo una battuta dell’inizio della piéce: io e il collega Luciano Roman ripetemmo allo sfinimento “Dove siamo” “Su un’isola padrone”. Strehler ci massacrava ma come massacrava se stesso, lavorando senza sosta. Qualche volta gli scappò anche una parolaccia, ma sapevo che erano espressioni d’amore: ci teneva che migliorassi, voleva tirarmi fuori il meglio.

Insomma lei è un napoletano amato da Milano? Di un amore infinito. Del resto i napoletani hanno un rapporto privilegiato con questa città. Milano ha uno sguardo più critico verso i romani. Anzi posso anche aggiungere che se Marcello Mastroianni, pur romano, per questioni di lavoro e famigliari si identificava anche con Parigi, io, invece, mi sento di Napoli e di Milano.

di Massimiliano Chiavarone  [email protected]