Milano è una metropoli col coraggio di cambiare e innovarsi. Parola del trasformista Brachetti

Al Teatro Nuovo fino a stasera con il varietà magico 'Brachetti che sorpresa' di Massimiliano Chiavarone

Arturo Brachetti

Arturo Brachetti

Milano, 19 luglio 2015 -  «A Milano hai la sensazione di spremere la vita. Altrove invece ti sembra di mungerla». Lo racconta Arturo Brachetti, uno dei più importanti trasformisti del mondo.

Qual è la differenza? «Il valore di qualsiasi cosa, da un frutto a un’occasione, è al massimo grado se viene spremuta all’istante. Mentre la mungitura richiede tempi più lenti. A Milano avverti un’energia invisibile che ti attraversa e ti spinge a buttarti. A non rimandare mai».

Il suo primo «tuffo» milanese? «Nel 1976 all’Odeon in via Santa Radegonda quando ancora era un teatro, ad applaudire i Legnanesi con in scena i fondatori Felice Musazzi e Tony Barlocco. Recita memorabile. Venni apposta da Torino e poi andai a salutarli in camerino».

Intanto lei pianificava la sua carriera? «Sì, tempo due anni e feci un provino con Macario che mi offrì di lavorare nella sua compagnia, ma scelsi Parigi dove nel frattempo superai un’altra selezione. Debuttai al «Paradis Latin» uno dei templi del cabaret, nella grande rivista «Nuit de Paradis», ma il ritorno a Milano e in Italia era in agguato».

La sua prima tappa italiana dopo il successo parigino? «Proprio Milano con lo spettacolo «Varietà». Era il 1985. Restammo in città tre settimane al teatro Smeraldo. Un grande cast con Massimo Ranieri, Marisa Merlini e la regia di Maurizio Scaparro. Io ero in scena con molti quadri tra cui «Cafè chantant», «Quattro stagioni» e finivo interpretando Wanda Osiris che poi saliva in cielo a bordo di una mongolfiera lanciando rose. La Osiris, sebbene invitata, non venne perché disse: «non sono ancora morta»».

E intanto lei si innamorò del quartiere? «Sì, piazza XXV Aprile e dintorni. In Corso Como passavano ancora le auto. Abitavo in un appartamento in via de Tocqueville e la sera dopo teatro andavo con i colleghi a cena in un ristorantino della zona che si chiamava «Il Cormorano». Il proprietario era il signor Donders, un olandese che ci faceva ottimi prezzi. E pensare che suo figlio Giorgio aveva la passione per l’illusionismo e mi chiedeva sempre consigli. Vivevo la zona anche di notte, in questo mi sento un po’ un vampiro, non mancavo mai di andare a ballare nelle discoteche dei paraggi. Questo quartiere poi è il simbolo del rinnovamento di Milano, con la corona di grattacieli che lo circonda. Sembra Berlino, che dopo la distruzione dell’ultima guerra è stata ricostruita diventando un esempio di città contemporanea».

Milano, porta aperta sul futuro? «Sì, è come se avesse sempre le batterie cariche. E’ la città delle start-up e del rinnovamento e questo coincide con la mia filosofia. Proprio poco tempo fa ho tenuto in Italia una conferenza sul mio percorso di vita per conto della Ted, la Technology Entertainment Design, che si occupa di organizzare lezioni tenute dai maggiori protagonisti del «pensare» e del «fare» per diffondere sul web idee che possano cambiare gli atteggiamernti nei confronti del mondo e della vita».

E questa città l’ha aiutata in questo campo? «Sì, grazie anche ad alcuni incontri. Come con Ugo Tognazzi con cui lavorai nella pièce teatrale «M. Butterfly» di David Henry Hwang debuttando proprio al Teatro Manzoni di Milano. Era un perfezionista e mi aiutò molto ad entrare nella parte. Interpretavo una cantante d’opera cinese che in realtà era un uomo e una spia e di cui si innamorava un diplomatico francese, cioè Tognazzi. In una scena dovevo recitare stando di lato e Ugo da dietro le quinte mi dava indicazioni per interpretarla sempre meglio. Poi prima che lo spettacolo cominciasse, andavo in camerino, mi sedevo sulle sue ginocchia e gli truccavo gli occhi: era un modo per entrare in contatto ogni sera. Lui mi diceva: «ricordati che il personaggio comincia sempre dalle scarpe». E infatti mi invitava a fare attenzione: se è un ruolo dal carattere leggero allora le calzature saranno lievi come i mocassini altrimenti le scarpe adatte saranno più grosse».

Un’immagine di Milano che le è rimasta impressa? «Una volta passeggiavo lungo la via Paolo Sarpi, che ormai è il cuore di Chinatown e ho visto un cinese in mutande che sul balcone di casa cantava «Nessun dorma» dalla Turandot di Puccini. Ho pensato: anche gli stranieri sono orgogliosi di stare a Milano».

di Massimiliano Chiavarone mchiavarone@yahoo.it  

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