Aggredito sul treno con il machete: «Nessuno viva più il nostro incubo»

L’appello alle istituzioni. «Non siamo eroi, facciamo quel che si deve ma non è giusto uscire di casa e per questo rischiare la vita» di GIAMBATTISTA ANASTASIO L'INIZIATIVA - Il Giorno ha chiesto l'Ambrogino d'oro

Carlo Di Napoli con la moglie Anna Maria Ferrara

Carlo Di Napoli con la moglie Anna Maria Ferrara

Milano, 28 ottobre 2015 - La paura vissuta in quegli attimi non lo ha sopraffatto. Anzi, si è fatta memoria persino più che rabbia: «Ricordo tutto di quella sera» dice con voce ferma come pagina di calendario. «No, non tocca a me giudicare chi mi ha fatto del male, tocca alla giustizia». Poi la sua mano stringe quella della moglie: «Noi abbiamo altre priorità». E gli occhi, lucidi sopra la cravatta rossa, sembrano avvistare l’ennesimo treno. Il suo, stavolta. «Voglio tornare a lavorare». A parlare è Carlo Di Napoli, il capotreno di 32 anni colpito al braccio con un machete da un gruppo di sudamericani ai quali aveva chiesto il biglietto. Stazione Villapizzone, linea Rogoredo-Expo, 11 giugno: da allora Di Napoli non ha mai rilasciato dichiarazioni. L’ha fatto ieri, dopo essere stato premiato con la medaglia al merito civile dal Consiglio regionale per la dedizione al lavoro insieme al collega Riccardo Magagnin, accorso in suo aiuto quella sera. Di Napoli, come sta? «Sto meglio, l’ultima operazione è andata bene. Ne ho subite tre, l’ultima il 25 settembre. Sto facendo progressi e ogni progresso per me è un piccolo traguardo». È vero che temeva di non poter più abbracciare e tenere in braccio la sua bambina, che oggi ha nove mesi? «Quella notte, mentre ero inginocchiato, mi reggevo il braccio, premevo l’arteria per cercare di perdere il meno sangue possibile e i miei pensieri correvano sempre a mia moglie e alla bambina. Pensavo che non era giusto che tutto ricadesse sulle spalle della mia compagna e che la piccola perdesse l’affetto del papà. Ingiusto che io non potessi più riabbracciarla».

Non è così, per fortuna. «Sto approfittando della degenza per godermela. Ogni giorno devo sottopormi ad un’ora e mezzo di terapie per recuperare la funzionalità della spalla, del polso e della mano. Ma tolti i momenti delle cure e quelli in cui lei è all’asilo, sto sempre a giocare con la bambina. Ogni occasione è buona».

Che ricorda di quella sera? «Ricordo tutto. Ma non posso parlarne, c’è un processo in corso. Quando sei costretto ad un lungo periodo di inattività capita di attraversare momenti difficili. La vera roccia è mia moglie: avere lei a fianco mi ha aiutato tanto».

Che si aspetta dal processo? «Non tocca a me giudicare chi mi ha fatto del male, sarà la giustizia a decidere. Adesso non penso a loro, adesso io e mia moglie abbiamo altre priorità: nostra figlia, la nostra famiglia. E voglio tornare a lavorare, appena possibile». Nessuna paura di tornare? «No. Dopo l’operazione del 25 settembre, i medici mi hanno detto che ci vorranno 9-12 mesi. Spero di accelerare».

In Consiglio ha richiamato le istituzioni... «Devono essere le istituzioni a far sì che quanto accaduto a me e a Riccardo non accada più a nessuno. Non è giusto uscire di casa per andare al lavoro e rischiare così. Non deve più ripetersi. Regione e Trenord si stanno muovendo in questo senso. I miei colleghi mi sono stati molto vicini quella notte e questo premio è anche loro. Anche Cinzia Farisè (ad di Trenord ndr) mi è stata vicino». giambattista.anastasio@ilgiorno.net

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