Il 'Tamerlano' rende giustizia al grande Händel, trionfo per l'opera alla Scala

Placido Domingo non delude ma non sono da meno Bejun Mehta e Franco Fagioli

KOLOSSAL Placido Domingo in una scena del Tamerlano, ambientato ai tempi della Rivoluzione russa

KOLOSSAL Placido Domingo in una scena del Tamerlano, ambientato ai tempi della Rivoluzione russa

Milano, 16 settembre 2017 - Dopo sporadici tentativi (l’Alcina importata da Parigi, il passaggio del Rinaldo creato da Pizzi vent’anni prima), finalmente la Scala sembra aver deciso di rendere giustizia nella sua programmazione regolare al più grande compositore d’opera barocco, Georg Friederich Händel: Il trionfo del Tempo e del Disinganno l’anno scorso, in un allestimento un po’ passée ma ancora valido, e adesso – in prima milanese - Tamerlano, tra i vertici assoluti della vastissima produzione händeliana. S’è atteso un po’: ma il risultato è stato all’altezza, confortato da un clamoroso successo tributato da un teatro esaurito che è restato ad applaudire dopo quattro ore e mezza.

Ancora Diego Fasolis a dirigere il settore dell’orchestra scaligera che ha accettato di studiare la pratica barocca su strumenti storici, e che rispetto all’anno scorso è stata molto meno coadiuvata da strumentisti della formazione I Barocchisti di Fasolis: segno che lo studio ha pagato, come d’altronde ha dimostrato un’esecuzione quasi ovunque impeccabile (giusto qualche spernacchiamento negli ottoni, ma poca roba), e resa incandescente nei ritmi, nelle articolazioni interne, nei sapienti contrasti dinamici e ritmici, dalla splendida direzione.

Placido Domingo era la star annunciata, e – vuoti di memoria anche paurosi a parte – ha reso lo stupendo personaggio del monarca sconfitto e infine suicida con notevole autorità, valendosi dell’immutato, grande carisma. Ma a portarsi via la serata sono stati i due migliori controtenori dell’attuale panorama internazionale: Bejun Mehta e Franco Fagioli hanno gareggiato alla pari fiondandosi in alto e sprofondando in basso con facilità impressionante, sgranando colorature sensazionali e legati di lancinante commozione, ma soprattutto rendendo sempre espressivo e di forte spessore drammaturgico tutto quest’iradiddio vocale.  Molto brava Maria Grazia Schiavo, a parte taluni acuti parecchio striduli al termine di variazioni forse un tantino troppo azzardate; splendida Marianne Crebassa nella parte corta ma drammaturgicamente fondamentale di Irene, mentre in quella marginale di Leone il basso Christian Senn (uno dei migliori risultati dell’Accademia scaligera) s’è ancora una volta fatto assai apprezzare.

Ciascuno del cast, poi, s’è mostrato attore da Oscar, rendendo così giustizia piena al grandioso, suggestivo spettacolo di Davide Livermore. Azione spostata al tempo della Rivoluzione d’Ottobre, e svolta in palcoscenico col ritmo maestoso ma calibratissimo del grande film storico alla Dottor Zivago, con ammicchi al sommo esempio di Sergej Ejzenštejn. Un treno che arriva tra steppe fumose e innevate; i saloni del Palazzo d’Inverno immersi nell’atmosfera decadente evocata da toilettes favolose (strepitosi i costumi di Mariana Fracasso); carrozze abbandonate sulla neve con soldati armati che sparano e uccidono; gestualità articolatissima, con tocchi di geniale aderenza musicale tipo ralenti e azioni ripetute che seguono i dacapo delle arie, “muovendo” il racconto senza un attimo di rilasciamento.

 

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