Mattia Torre al Parenti con "Qui e ora"

Uno spaccato fedele (ma tragicomico) della società italiana. Una società sgradevole, arrabbiata, ottusa. Come dimostrano i personaggi interpretati da Paolo Calabresi e Valerio Aprea, pronti a offrire il peggio di sé dopo un incidente

"Qui e ora" di Mattia Torre

"Qui e ora" di Mattia Torre

Milano, 14 marzo 2017 - Quasi un Beckett alla romana. Che saranno pure passati gli anni, ma “Qui e ora” di Mattia Torre rimane uno spaccato fedele (ma tragicomico) della società italiana. Una società sgradevole, arrabbiata, ottusa. Come dimostrano questi due miseri personaggi interpretati da Paolo Calabresi e Valerio Aprea, pronti a offrire il peggio di sé dopo un incidente. Lavoro di qualche stagione fa, da stasera lo ripropone il Franco Parenti all’interno del focus che sta dedicando all’autore (e regista) romano. Ovvero il papà di “Boris”, insieme a Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo. Un cult. Ma più in generale una delle scritture più richieste fra cinema, teatro, televisione.

Torre, il focus al Franco Parenti suona come una consacrazione.

«Già, una retrospettiva con autore vivente… Non le nego che mi dà molta soddisfazione. È anche la possibilità di fare il punto della situazione prima di immergersi nel nuovo lavoro, che vorrei finire per il prossimo anno».

Cosa le piace del teatro?

«Mi esalta l’agilità produttiva, ti consente di realizzare i progetti più velocemente e in maniera essenziale. Io ad esempio uso pochissime scene, mi è sufficiente concentrarmi sulla parola. E poi ovviamente sugli attori, a cui mi affido e che incarico di rappresentare un mondo. Come in questo caso. Un mondo che viene evocato in maniera potente».

Una definizione per “Qui e ora”?

«Un duello metropolitano. Fra due uomini che fanno un incidente in auto. Perché in questo Paese nell’altro vedi subito un nemico, qualcuno che può prevaricarti. Potenzialmente una minaccia. E purtroppo mi sembra che da quando l’ho scritto la nostra società sia peggiorata, subendo un’ulteriore involuzione. Il deficit di rappresentanza ha creato sfiducia non solo nei confronti delle istituzioni ma anche fra i cittadini, gonfiando la società di conflitti e di rabbia».

Come cambia il suo modo di lavorare al cinema o in tv?

«In realtà non cambia molto, mi sembra di avere sempre lo stesso atteggiamento. Anche per “Boris” è stato così. Alla fine è uno spaccato “horror” del nostro Paese, racconta di gente rassegnata nonostante il cazzeggio, le risate, la commedia. Che poi è quello che mi interessa: raccontare il presente in maniera tragicomica».

Vi aspettavate il successo di “Boris”?

«Per niente. Era piuttosto sperimentale, artigianale, folle. Ma in quel momento Fox voleva smarcarsi dalla tv generalista e così scatenò il big bang. Credo che siamo stati fra i primi a mostrare qualcosa di vero, con gente che parlava in maniera vera».

È stata la svolta?

«No, perché ci riferiamo comunque a un successo culturale, da riserva indiana. Con Giacomo e Luca non siamo ancora riusciti ad esplodere nel grande pubblico, anche se ci piacerebbe. Ho voglia di allargare il campo e acchiappare tutti. Non sopporto i discorsi sul target, mi piace pensare senza categorie quando faccio un progetto, poi ognuno ovviamente è libero di scegliere e di giudicare. Come a teatro».

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