Niccolò Fabi vent’anni dopo: "Suono solo quello che amo"

Giovedì sera il cantante al Carroponte. La festa del ventennale

Niccolò Fabi (Serra)

Niccolò Fabi (Serra)

Milano, 5 luglio 2017 - Gli spazi contano. Così l’antologia con cui ad ottobre Niccolò Fabi festeggia il suo ventennio di carriera economizza gli interlinea trasformando l’idea di guardarsi allo specchio “di venti in venti” in un amarcord malato di ottimismo come quello che sottintende ad un titolo quale “Diventi inventi 1997-2017”. Nell’attesa, l’autore di “Ho perso la città” approda in concerto questa sera al Carroponte affiancato da Alberto Bianco con la sua band, ovvero Damir Nefat, Filippo Cornaglia e Matteo Gia.

Niccolò, cos’è cambiato dal 2007 ad oggi?

«Alla boa dei primi dieci anni non potevo certo dire di aver condotto la mia carriera esattamente là dove volevo, di aver raggiunto il livello qualitativo in cui speravo, mentre oggi sì. Tant’è che l’ultimo album “Una somma di piccole cose” mi ha dato più gratificazioni di quante ne avessi mai avute in passato. Quando uscì “Dischi volanti” non avrei mai potuto prevedere che la storia sarebbe durata altri dieci anni e che questa ricorrenza sarebbe caduta proprio nel momento più gratificante per me».

Pure sotto il profilo personale sono accadute tante cose.

«Sono diventato padre per la prima volta, ho perso mia figlia, ho avuto un figlio, tutte esperienze che mi hanno segnato umanamente, facendomi diventare più adulto e più sereno di un tempo. All’inizio vivi solo per il successo, poi gli eventi della vita ti fanno capire che le sfaccettature sono molte di più. E che la popolarità è solo una di esse, magari nemmeno la più importante».

Che Fabi era quello degli inizi?

«I primi due-tre anni sono serviti a farmi capire che quel mondo spettacolare radiotelevisivo in cui mi avevano paracadutato alcuni singoli di successo non era la mia vera ambizione; e me ne sono allontanato».

Cosa le manca di allora?

«La prospettiva del futuro, ma questa penso sia una sensazione che prova qualsiasi adulto».

“Dica” è dell’agosto ’96, quindi il ventennale sarebbe dovuto cadere un anno fa.

«Al di là del primissimo singolo, a tutt’oggi quello che forse mi rappresenta di meno, il mio vero debutto fu l’album. Penso che “Dica” sia stato l’unico prodotto di laboratorio che ho accettato di fare e, quando l’ascolto, è come se la cantasse un altro».

Lo show del Carroponte è un’ antologica?

«No. Appartengo a quella categoria di musicisti che hanno il limite di riuscire a suonare bene solo ciò che li rappresenta in quel momento, quindi non riesco a gestire un best of solo per far piacere chi mi ascolta. Sono andato a riprendere qualche pezzo ma sempre per creare una storia che abbia una sua coerenza e possa tracciare un nuovo viaggio all’interno del mio linguaggio».

 

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